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T.A.R. Liguria, Sez. I, 10 aprile 2018, n. 310 - In tal senso si nota che la controversia che vede il comune contrapporsi alla richiesta dell’interessato attiene alla necessità affermata dalla p.a. e negata dal ricorrente di ricomprendere nel volume massimo assentibile ai sensi della legge sul piano caso anche la tettoia descritta in progetto ed effigiata nella produzione 16.2.2018 del ricorrente. Soccorre al riguardo la giurisprudenza che va condivisa (ad esempio cons. Stato, 2017/1155, id, 2017/306, tar Lazio, Roma, 2016/7877) che ha ritenuto che la tettoia necessita di un idoneo titolo allorché esula dai minimi contenuti che può avere un piccolo riparo aperto da tre lati, sì che essa costituisce spazio edificabile a tutti gli effetti quando viene realizzato un vero e proprio ambiente fruibile in via continuativa.     T.A.R. Liguria, Sez. I, 8 novembre 2012, n. 1394 - La tamponatura del porticato dà vita ad un nuovo volume edilizio entro il perimetro di uno spazio in origine aperto, quale quello ricompreso nel porticato, per cui se diviene un volume chiuso con pareti fisse, come tale è rilevante ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e) punto 1, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (e già prima art. 1 l. n. 10 del 1977) sul piano edilizio ed urbanistico (T.A.R. Liguria, Sez. I, 9 ottobre 2008, n. 1769).

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Secondo il TAR Liguria, Sez. II, 9.11.2012, n. 1417 il principio del favor partecipationis trova applicazione in tutte le procedure lato sensu concorsuali tra le quali quelle di accreditamento di enti senza scopo di lucro per lo svolgimento di attività formative.

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Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 82 del 8.4.2013 il d.l. 8 aprile 2013, n. 35 recante «Disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonchè in materia di versamento di tributi degli enti locali»     Dal 1° gennaio 2013 entrerà in vigore il d.lgs. 9 novembre 2012 , n. 192 recante «Modifiche al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, per l'integrale recepimento della direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, a norma dell'articolo 10, comma 1, della legge 11 novembre 2011, n. 180».

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Cons. Stato, Ad. plen., 7 settembre 2020, n. 17 - La questione rimessa all'Adunanza plenaria riguarda l'esatta delimitazione dei vizi che consentono, in luogo della demolizione, l'applicazione del regime di 'fiscalizzazione' dell'abuso edilizio previsto dall'art. 38 del T.U. edilizia, 6 giugno 2001, n. 380. In particolare il dubbio esegetico può essere così enunciato: dinanzi all'annullamento in sede giurisdizionale del permesso di costruire, a cagione della sussistenza di un vizio sostanziale non emendabile, l'art. 38 del Testo Unico edilizia consente, o meno, all'Amministrazione di imporre la sola sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, con effetti equivalenti al conseguimento del permesso di costruire in sanatoria? A riguardo, l'Adunanza plenaria ha chiarito che: "5.1. La disposizione in commento fa specifico riferimento ai vizi “delle procedure”, avendo così cura di segmentare le cause di invalidità che possano giustificare l’operatività del temperamento più volte segnalato, in guisa da discernerle dagli altri vizi del provvedimento che, non attenendo al procedimento, involvono profili di compatibilità della costruzione rispetto al quadro programmatorio e regolamentare che disciplina l’an e il quomodo dell’attività edificatoria. 5.2. Non a caso il tenore della norma impone, sia pur per implicito, all’amministrazione l’obbligo di porre preliminarmente rimedio al vizio, rimuovendolo attraverso un’attività di secondo grado pacificamente sussumibile nell’esercizio del potere di convalida contemplato in via generale dall’art. 21 nonies comma 2 della legge generale sul procedimento. La convalida per il tramite della rimozione del vizio implica necessariamente un’illegittimità di natura “procedurale”, essendo evidente che ogni diverso vizio afferente alla sostanza regolatoria del rapporto amministrativo rispetto al quadro normativo vigente risulterebbe superabile solo attraverso una modifica di quest’ultimo; ius superveniens che, in quanto riguardante il contesto normativo generale, certamente esula da concetto di “rimozione del vizio” afferente la singola e concreta fattispecie provvedimentale. 5.3. Il riferimento ad un vizio procedurale astrattamente convalidabile delimita operativamente il campo semantico della successiva e connessa proposizione normativa riferita all’impossibilità di rimozione, dovendo per questa intendersi una impossibilità che attiene pur sempre ad un vizio che, sul piano astratto sarebbe suscettibile di convalida, e che per le motivate valutazioni espressamente fatte dall’amministrazione, non risulta esserlo in concreto. 5.4. Diversamente da quanto sostenuto dall’orientamento giurisprudenziale “estensivo” del quale si è dato sopra atto, in casi siffatti il sindacato del giudice chiamato a vagliare la legittimità della operata fiscalizzazione dell’abuso deve avere ad oggetto proprio la natura del vizio. La “motivata valutazione” dell’amministrazione infatti afferisce al preliminare vaglio amministrativo circa la rimovibilità (anche) in concreto del vizio, ex art. 21 nonies comma 2, e rileva non già rispetto al binomio fiscalizzazione/demolizione, quanto in relazione al diverso binomio convalida/applicazione dell’art. 38, costituente soglia di accesso per applicazione dell’intero impianto dell’art. 38 (e non solo dell’opzione della fiscalizzazione). 6. La descritta esegesi è confermata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Quest’ultima, nella sentenza 209/2010 ha avuto modo di chiarire, giudicando della legittimità di una norma di interpretazione autentica di una disposizione provinciale di tenore identico a quella nazionale che qui si discute (interpretazione autentica tesa ad estendere la fiscalizzazione ai vizi sostanziali), che “l'espressione «vizi delle procedure amministrative» non si presta ad una molteplicità di significati, tale da abbracciare i «vizi sostanziali», che esprimono invece un concetto ben distinto da quello di vizi procedurali e non in quest'ultimo potenzialmente contenuto”. 7. Del resto depongono in tal senso anche considerazioni di carattere sistematico. 7.1. La tutela dell’affidamento attraverso l’eccezionale potere di sanatoria contemplato dall’art. 38 non può infatti giungere sino a consentire una sorta di condono amministrativo affidato alla valutazione dell’amministrazione, in deroga a qualsivoglia previsione urbanistica, ambientale o paesaggistica, pena l’inammissibile elusione del principio di programmazione e l’irreversibile compromissione del territorio, ma è piuttosto ragionevolmente limitata a vizi che attengono esclusivamente al procedimento autorizzativo, i quali non possono ridondare in danno del privato che legittimamente ha confidato sulla presunzione di legittimità di quanto assentito. 7.2. A ciò si aggiunge, nei casi in cui l’annullamento del titolo sia intervenuto in sede giurisdizionale su istanza di proprietario limitrofo o associazioni rappresentative di interessi diffusi (giova sottolineare che l’art. 38 non si sofferma sulla natura giurisdizionale o amministrativa dell’annullamento), che la tutela dell’affidamento del costruttore, attraverso la fiscalizzazione dell’abuso anche in relazione a vizi sostanziali, di fatto vanificherebbe la tutela del terzo ricorrente, il quale, all’esito di un costoso e defatigante giudizio, si troverebbe privato di qualsivoglia utilità, essendo la sanzione pecuniaria incamerata dall’erario. 8. Il punto di equilibrio sin qui individuato nel delicato bilanciamento fra tutela dell’affidamento, tutela del territorio e tutela del terzo non è, ad avviso di questa Adunanza plenaria, depotenziato dalla giurisprudenza della Corte EDU sul carattere fondamentale del diritto di abitazione e sul necessario rispetto del principio di proporzionalità nell’inflizione della sanzione demolitoria (si veda, da ultimo, Corte EDU, 21/4/2016 Ivanova vs. Bulgaria). 8.1. Nell’ordinamento interno, caduto il dogma dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi a seguito della nota sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 500/99, si è affermato, anche per via legislativa, che il “bene della vita” cui il privato aspira è meritevole di protezione piena a prescindere dalla qualificazione come diritto soggettivo o interesse legittimo della posizione giuridica al quale esso di correla. E’ quindi ben possibile che, a prescindere dalla qualificazione giuridica della posizione giuridica del costruttore che dinanzi all’annullamento in sede amministrativa o giurisdizionale del permesso di costruire reclami il ristoro dei danni conseguenti al legittimo affidamento dal medesimo riposto circa la legittimità dell’edificazione realizzata (sul punto le Sezioni unite sono ferme nel ritenere che trattasi di diritto soggettivo: SSUU, 24 settembre 2018, n. 22435; 22 giugno 2017, n. 15640; 4 settembre 2015, n. 17586; 23 marzo 2011, n. 6596), l’illecito commesso dall’amministrazione comporti il sorgere di un’obbligazione all’integrale risarcimento, per equivalente, del danno provocato. 8.2. Obbligazione che interviene a ridare coerenza, ragionevolezza ed effettività al sistema delle tutele, ove la conservazione dell’immobile nella sua integrità si ponga in irrimediabile conflitto con i valori urbanistici e ambientali sopra ricordati. 9. Al quesito posto dall’ordinanza di rimessione deve quindi rispondersi nel senso che “i vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione”. 10. Tornando al caso di specie, la Sezione, cui gli atti saranno restituiti, dovrà fare applicazione del principio appena enunciato, e ove - come appare evidente dalla disamina degli atti - ritenesse che i vizi del titolo a suo tempo rilasciato, che ne hanno provocato l’annullamento in sede giurisdizionale, siano relativi all’insanabile contrasto del provvedimento autorizzativo con le norme di programmazione e regolamentazione urbanistica, escludere l’applicabilità del regime di fiscalizzazione dell’abuso in ragione delle non rimovibilità del vizio".   T.A.R. Liguria, Sez. I, 29 maggio 2019, n. 497 - Esaminando la motivazione addotta dal Comune va rilevata l’inadeguatezza della stessa sia sotto il profilo qualificatorio degli abusi riscontrati, sia con riguardo alle sanzioni da applicare. In primo luogo, infatti, il Comune non ha compiutamente motivato in ordine alla natura degli interventi realizzati da parte ricorrente. Sotto un primo profilo, il Comune non ha fatto alcun riferimento alla data di realizzazione degli stessi, dato che incide in modo rilevante sotto il profilo della normativa applicabile e, quindi, della categoria edilizia nell’ambito della quale devono essere sussunte le opere contestate. Si consideri, al riguardo, che, fermo restando il principio, accolto da questo Tribunale, secondo il quale l’onere di provare l’effettiva data di realizzazione delle opere normalmente incombe sul privato che intende applicare la normativa vigente nel tempo a sé più favorevole, occorre considerare che il Comune deve chiarire, nel provvedimento con il quale qualifica l’abuso, la data degli interventi contestati, oppure, anche sotto il profilo temporale, la specifica normativa che intende applicare. Nel caso di specie il Comune, come detto, si è limitato a fare riferimento all’art. 23, d.p.r. n. 380 del 2001, senza però precisare in quale delle fattispecie descritte dalla norma intendeva far rientrare l’intervento edilizio contestato, e, non avendo accertato la data di realizzazione delle opere, senza indicare a quale versione della norma intendeva fare riferimento. Se, come sembra, si deve fare riferimento, in mancanza di diversa indicazione, al testo normativo in vigore, quantomeno, alla data di comunicazione di avvio del procedimento (14.8.2017), alla fattispecie deve essere applicato l’art. 23, co 01, d.p.r. n. 380 del 2001: il Comune non ha precisato in quale delle fattispecie descritte nella predetta norma dovrebbe sussumersi l’intervento edilizio contestato e per quali ragioni. Non solo, ma, a ben vedere, l’accertamento del Comune e la conseguente motivazione risultano carenti laddove l’Ente non ha minimamente contemplato l’analisi e l’applicazione della l. r. Liguria n. 16 del 2008 e ciò sia per quanto concerne la qualificazione delle opere realizzate (e relativo titolo edilizio), sia con riferimento alle specifiche sanzioni irrogabili. Premesso, infatti, che, già dall’esame degli artt. 3, 6, 10, 22 e 23, d.p.r. n. 380 del 2001 vigenti alla data predetta, deve essere revocato in dubbio che la fattispecie in esame possa farsi rientrare in una delle specifiche ipotesi dell’art. 23, co. 01, d.p.r. n. 380 del 2001, il Comune avrebbe dovuto, in modo specifico e accurato, qualificare le opere contestate alla luce della puntuale e capillare normativa regionale dettata dalla l. r. Liguria n. 16 del 2008 ss.mm.ii., che detta precise disposizioni definitorie sia con riferimento alle singole categorie di opere edilizie, sia in relazione ai titoli necessari per ciascuna categoria e opera in essa rientrante. Anche laddove il Comune ha fatto riferimento ad un “mutamento della destinazione d’uso” in conseguenza delle opere realizzate, la motivazione risulta imprecisa e non adeguatamente giustificata se solo si considera che la l. r. Liguria n. 16 del 2008 distingue tra “mutamento di destinazione d’uso” e “trasformazioni d’uso”, prevedendo, ad esempio che sono soggetti a SCIA (semplice e non in sostituzione di permesso di costruire) (art. 21 bis, lett. e). Tale difetto di motivazione è radicale e non può né essere superato da una integrazione/precisazione resa in sede processuale dalla difesa del Comune medesimo, né può chiedersi a parte ricorrente di provvedere essa stessa a confutare tutte le possibili qualificazioni sottese al provvedimento comunale: al riguardo, l’onere in capo al privato di dimostrare la sussumibilità delle opere in una determinata categoria edilizia a sé favorevole sorge soltanto quanto la Pubblica Amministrazione abbia compiutamente e motivatamente provveduto a fornire essa stessa una qualificazione della fattispecie, traendone le relative conseguenze in termini definitori e sanzionatori. L’inadeguato apparato motivazionale del provvedimento in punto qualificazione della fattispecie si riverbera inevitabilmente sulla totale mancanza di motivazione in ordine alle conseguenze dell’abuso riscontrato. Premesso, infatti, che non è dato comprendere dal provvedimento in modo chiaro per quale motivo il Comune abbia di fatto applicato l’art. 31 e non l’art. 33, d.p.r. n. 380 del 2001, occorre considerare che la l. r. n. 16 del 2008 differenzia in modo puntuale e preciso le diverse fattispecie negli artt. 44, 45, 46 e 47. Il Comune non solo non ha fatto riferimento né, a fortiori, ha compiutamente motivato in ordine alla sussumibilità della fattispecie in una delle previsioni sopra dette, ma, a fronte di solo “alcune difformità”, ha disposto la demolizione con la previsione dell’eventuale acquisizione al patrimonio dell’Ente in mancanza di adempimento: ciò in una fattispecie nella quale, laddove si applicasse l’art. 47, l. r. n. 16 del 2008, fermo restando l’ordine di demolizione o ripristino, non troverebbe spazio l’ulteriore sanzione della acquisizione al patrimonio del Comune. Pertanto, sotto il profilo delle violazioni di natura “edilizia”, il provvedimento risulta illegittimo in quanto non adeguatamente motivato, col chè il Comune dovrà procedere ad una nuova rivalutazione della fattispecie adottando un’articolata motivazione, sia sotto il profilo tecnico fattuale che giuridico (sia con riferimento alla normativa nazionale che regionale), in punto qualificazione delle opere, titoli edilizi necessari in considerazione della qualificazione medesima e specifica sanzione da applicare.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 9 luglio 2018, n. 604 - Lo scrutinio della censura implica un riferimento al concetto di pertinenza urbanistica e alle differenze rispetto alla nozione generale di pertinenza. Per consolidato orientamento giurisprudenziale, la prima nozione assume caratteri peculiari in ragione della specificità della materia e della diversa finalità pubblica posta a base della relativa normativa, risultando meno ampia di quella definita dall’art. 817 c.c. (cose destinate, in modo durevole, a servizio o a ornamento di altra cosa) e tale da non includere tutte le opere destinate al servizio dell’immobile principale. Più precisamente, si configura una pertinenza urbanistica solo quando sussista un collegamento funzionale e oggettivo tra il bene accessorio e quello principale, vale a dire un nesso che consente esclusivamente la destinazione del bene accessorio ad un uso pertinenziale durevole, purché l’opera secondaria non comporti un maggiore carico urbanistico (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 29 gennaio 2015 n. 406 e 5 gennaio 2015, n. 13; idem, sez. IV, 17 maggio 2010, n. 3127). Non possono essere qualificate come pertinenze in senso urbanistico, pertanto, le costruzioni che, pur essendo ascrivibili alla categoria dei beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto all’immobile principale. Tanto precisato, non vi è dubbio che un impianto voluttuario come una piscina possa essere qualificato alla stregua di pertinenza (in senso urbanistico), a condizione che sia compreso all’interno della proprietà privata e posto all’esclusivo servizio dell’edificio principale. Tali condizioni sussistono nel caso di specie, non essendo contestabile la coessenzialità della piscina all’edificio principale (cfr. art. 2 bis del regolamento di condominio), l’impossibilità di utilizzarla successivamente in modo separato da esso e, in conseguenza, la mancanza di un autonomo valore di mercato. L’entità strutturale dell’opera (la difesa comunale indica una volumetria di 197 mc) non pare poi tale da eccedere i limiti di un rapporto equilibrato con le esigenze dei soggetti che risiedono nell’edificio principale e può essere ritenuta adeguata ad un complesso immobiliare composto da tredici unità abitative. Non pare revocabile in dubbio, infine, che la realizzazione di una piscina “a raso”, posta all’esclusivo servizio dell’edificio principale, non determini incrementi del carico urbanistico, mentre l’ampia estensione dell’area pertinenziale (circa 5.000 mq) in cui è ubicato tale impianto esclude la possibilità di influire sugli interessi dei proprietari degli immobili finitimi. In definitiva, non si ravvisano concrete controindicazioni alla qualificazione dell’opera come pertinenza urbanistica, in quanto tale non soggetta al regime del permesso di costruire. Ne deriva l’illegittimità della contestata sanzione demolitoria, la cui applicazione presupponeva, ai sensi dell’art. 37 del t.u. edilizia, una motivata valutazione della Soprintendenza di cui non vi è traccia negli atti del procedimento.   Cons. Stato, Sez. P., 17 ottobre 2017, n. 9 - 4. Ad avviso di questa Adunanza Plenaria il dato di fondo da cui occorre prendere le mosse è costituito dall’oggettiva non riconducibilità della fattispecie in esame al quadro generale dell’autotutela. Ed infatti, non viene qui in rilievo l’ipotesi in cui l’amministrazione abbia, a distanza di tempo dal rilascio, disposto l’annullamento in autotutela del titolo edilizio illegittimamente adottato ovvero del provvedimento di sanatoria rilasciato in assenza dei necessari presupposti legittimanti. Al contrario, il caso che qui rileva si presenta in termini sensibilmente diversi e concerne la diversa ipotesi in cui l’edificazione sia avvenuta nella totale assenza di un titolo legittimante (laddove – tuttavia – l’amministrazione abbia provveduto solo a distanza di un considerevole lasso di tempo all’adozione dell’ingiunzione di demolizione). Si tratta, in definitiva, dei casi (frequenti nella pratica) di doverosa – se pure tardiva – attivazione dell’ordine di demolizione di fabbricati privi ab origine di un qualunque titolo legittimante e giammai ammessi a sanatoria. Al riguardo ci si limita a rilevare che: - nel caso di ritiro tardivo in autotutela di un atto amministrativo illegittimo ma favorevole al proprietario, si radica comunque un affidamento in capo al privato beneficiato dall’atto in questione e ciò giustifica una scelta normativa (quale quella trasfusa nell’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990) volta a rafforzare l’onere motivazionale gravante in capo all’amministrazione. Si tratta di stabilire sino a che punto e in che termini l’ordinamento si debba far carico di tutelare un siffatto stato di legittimo affidamento; - al contrario, nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata. In definitiva, non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria. 5. Va d’altra parte osservato che, anche nelle sue declinazioni più estreme, la tesi maggiormente orientata al riconoscimento delle ragioni e delle prerogative proprietarie non giunge a riconoscere l’illegittimità dell’ordine di demolizione quale diretta conseguenza della sua tardiva emanazione, né postula una sorta di ‘sanatoria extra ordinem’ quale effetto dell’omessa o tardiva adozione del provvedimento demolitorio. Ed infatti, le decisioni riconducibili a tale approccio pervengono soltanto – in maniera più o meno incisiva – a delineare in capo all’amministrazione che abbia omesso per un considerevole lasso di tempo di adottare l’ordine di demolizione un onere di motivazione sia in ordine alle ragioni di interesse pubblico – concreto e attuale – sottese alla demolizione, sia in ordine alla comparazione fra l’interesse pubblico al ripristino della legittimità violata e l’interesse privato alla permanenza in loco del manufatto. La stessa sentenza della Quarta Sezione di questo Consiglio di Stato n. 1016 del 2014 (invocata dagli appellanti a sostegno delle proprie tesi) non ha affermato l’illegittimità ex se dell’ordine di demolizione tardivamente adottato, ma ha soltanto individuato una serie di “casi-limite” in cui graverebbe comunque sull’amministrazione l’obbligo di motivare puntualmente in ordine alle ragioni sottese alla tardiva attivazione del potere ripristinatorio (la sentenza in questione ha individuato tali “casi-limite” nelle ipotesi in cui: i) il proprietario attuale non abbia commesso l’abuso; ii) l’alienazione in suo favore non palesi intenti elusivi; iii) fra il commesso abuso e il provvedimento demolitorio sia intercorso un notevole lasso di tempo). 5.1. Si osserva comunque al riguardo che non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta – e inammissibile – forma di sanatoria automatica o praeter legem. 5.2. Una chiara conferma di quanto appena rappresentato si desume dal terzo periodo del comma 4-bis dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001 (per come introdotto dal comma 1, lettera q-bis) dell’articolo 17 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133), secondo cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”. La disposizione appena richiamata chiarisce che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l’amministrazione del potere di adottare l’ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche – e diverse – conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell’omissione o del ritardo nell’adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo. 6. Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (pur se tardivamente adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. 6.1. Deve quindi ribadirsi che, in questi casi, nemmeno si pone un problema di affidamento, che presuppone una posizione favorevole all’intervento riconosciuta da un atto in tesi illegittimo poi successivamente oggetto di un provvedimento di autotutela. Un condiviso orientamento ha sottolineato al riguardo l’oggettiva differenza che sussiste fra: - (da un lato) l’adozione di determinazioni sfavorevoli di segno opposto rispetto ad altre precedenti e di segno favorevole per l’interessato (come l’annullamento in autotutela del titolo edilizio o del provvedimento di sanatoria) e - (dall’altro) l’adozione dell’ordine di demolizione in caso di interventi realizzati in radicale assenza del permesso di costruire (articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001). In tale secondo novero di ipotesi è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria (in tal senso: Cons. Stato, IV, 28 febbraio 2017, n. 908). 7. A conclusioni del tutto analoghe (in punto di insussistenza di un obbligo di motivazione nelle ipotesi che qui rilevano) è pervenuta la giurisprudenza di questo Consiglio anche prendendo le mosse da angoli visuali diversi da quello dell’applicabilità o meno delle categorie dell’autotutela decisoria. 7.1. E’ stato in primo luogo affermato che il tempo trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra il momento della realizzazione dell’abuso e l’adozione dell’ordine di demolizione non determina l’insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e non innesta in capo all’amministrazione uno specifico onere di motivazione. Ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento (in tal senso – ex multis -: Cons. Stato, VI, 27 marzo 2017, n. 1386; id., VI, 6 marzo 2017, n. 1060). 7.2. E’ stato inoltre affermato che il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (che deve essere adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) fa sì che esso non necessiti di una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione. Inoltre, il provvedimento di demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opus (in tal senso – ex multis -: Cons. Stato, VI, 21 marzo 2017, n. 1267). 7.3. E’ stato, ancora, affermato che non occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo neppure quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione. Ed infatti l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore realizzata contra legem (in tal senso – ex multis -: Cons. Stato, IV, 28 febbraio 2017, n. 908; id., VI, 13 dicembre 2016, n. 5256). Si è altresì osservato – e in modo parimenti condivisibile - che l’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile. Ciò, in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare (in tal senso – ex multis -: Cons. Stato, 28 febbraio 2017, n. 908; id., IV, 12 ottobre 2016, n. 4205; id., IV, 31 agosto 2016, n. 3750). Deve pertanto essere confermato, anche da questi diversi angoli visuali, che, nelle ipotesi che qui rilevano di edificazioni radicalmente abusive e giammai assistite da alcun titolo, il richiamo alla figura, peraltro ambigua e controversa, dell’interesse pubblico in re ipsa, appare improprio. Ciò perché - da un lato, come si è detto, il rilevato carattere sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico; - dall’altro, la selezione e ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta – per così dire – ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere – in modo esplicito o implicito – una siffatta ponderazione di interessi in sede di adozione dei propri provvedimenti. 7.4. L’ordinanza di rimessione si è altresì soffermata sulla possibile sussistenza di un obbligo per l’amministrazione di motivare l’ordine di demolizione in relazione alla concretezza ed attualità dell’interesse pubblico alla demolizione. Le considerazioni sopra esposte - che evidenziano la non riconducibilità della fattispecie all’autotutela decisoria - escludono la rilevanza delle questioni attinenti all’onere motivazionale. 8. L’ordinanza di rimessione si sofferma inoltre sul caso in cui l’attuale proprietario dell’immobile non sia responsabile dell’abuso e non risulti che la cessione sia stata effettuata con intenti elusivi. 8.1. Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale della misura ripristinatoria della demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia responsabile dell’abuso. Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il responsabile dell’abuso e l’attuale proprietario imponga all’amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale. Ed infatti il carattere reale dell’abuso e la stretta doverosità delle sue conseguenze non consentono di valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale può – al contrario – rilevare a fini diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile dell’abuso e il suo avente causa). Del resto, la principale (se non l’unica) ragione che potrebbe indurre a valorizzare la richiamata alterità soggettiva è quella relativa allo stato soggettivo di buona fede e di affidamento che caratterizza la posizione dell’avente causa. Tuttavia – e per le ragioni dinanzi esposte retro, sub 7.1 e 7.3 – tali stati soggettivi non possono essere in alcun modo valorizzati ai fini motivazionali In definitiva l’Adunanza plenaria ritiene di confermare l’orientamento secondo cui gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario o dell’occupante l’immobile (l’estraneità agli abusi assumendo comunque rilievo sotto altri profili), applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell’irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell’ordine giuridico violato (in tal senso – ex multis -: Cons. Stato, VI, 26 luglio 2017, n. 3694). 9. A conclusioni del tutto analoghe a quelle appena rassegnate deve giungersi anche in relazione all’ipotesi in cui sia pacifico che l’alienazione dell’immobile oggetto di abuso sia stata realizzata in circostanze che inducono ad escludere qualunque intento elusivo Anche in questo caso ci si limita ad osservare che tale circostanza – inerente in ultima analisi allo stato soggettivo dell’avente causa – non può in alcuno modo rilevare sulla doverosità delle conseguenze connesse alla commissione dell’abuso in quanto tale. 10. In conclusione l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato enuncia il seguente principio di diritto: “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 26 maggio 2017, n. 464 - Il tribunale amministrativo nota che la distanza nel tempo dai fatti illeciti ascrivibili al defunto signor Giuseppe Sanguineti non è sostanzialmente contestato dalle difese dell’amministrazione: in diritto è nota la differenza d’opinioni esistente in argomento anche nella giurisprudenza del consiglio di Stato, posto che talune pronunce richiedono che nei casi di abusi risalenti nel tempo l’amministrazione si diffonda sull’interesse ulteriore al ripristino della legalità violata, mentre altre decisioni osservano che l’abuso edilizio non ingenera affidamenti di sorta, tanto più che gli anni recenti hanno offerto agli autori numerose occasioni per rientrare nella legalità accedendo ai condoni previsti dalla legge. Al riguardo può notarsi che la prima edificazione rimonta appunto al 1987, un tempo quindi non così risalente anche in considerazione del fatto che nel 1985 era stato approvato il promo provvedimento organico di condono, sì che l’allegato affidamento ingenerato nel trasgressore era più flebile.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 5 giugno 2017, n. 494 - Tanto precisato, sono fondate le censure di legittimità intese a denunciare la carenza di elementi atti a dimostrare che, all’epoca di costruzione della menzionata porzione in muratura, fosse necessario il rilascio di un titolo abilitativo edilizio. Occorre premettere che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, l’onere della prova in merito all’epoca di realizzazione delle opere abusive grava sul privato e non sul Comune che, in presenza di un’opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere/dovere di applicare le sanzioni previste dalla legge. Nel caso in esame, tuttavia, l’applicazione di tale principio va temperata in ragione delle peculiarità della fattispecie, atteso che l’assolvimento dell’onere probatorio suddetto è ostacolato dall’età assai avanzata della ricorrente e dalla sua situazione personale. Essa riferisce, comunque, di essersi trasferita nella zona in cui sorge l’immobile de quo alla fine degli anni ’40 del secolo scorso, per lavorarvi come custode di bestiame, e di aver ottenuto dal precedente proprietario il permesso di alloggiare in tale casolare che, già nella conformazione dell’epoca, avrebbe compreso la porzione in muratura oggetto dell’ordinanza di demolizione, ove era collocato un servizio igienico. La stessa Amministrazione procedente riconosce, d’altronde, che la costruzione è stata effettuata in epoca risalente: nella relazione della polizia municipale prot. n. 4663 del 17 giugno 2015, si afferma che la porzione di fabbricato in questione è stata realizzata “in epoca anteriore all’anno 1973”. La relazione suddetta e gli atti successivi del procedimento non contengono, però, più precisi riferimenti idonei a dimostrare che detto corpo di fabbrica sarebbe stato realizzato successivamente all’introduzione dell’obbligo di ottenere la licenza edilizia per gli immobili siti al di fuori dei centri abitati (1967). Sussistendo una situazione di obiettiva incertezza in merito all’epoca di costruzione della porzione di fabbricato, l’Amministrazione era tenuta ad espletare più puntuali e approfonditi accertamenti, in assenza dei quali il provvedimento impugnato risulta viziato sotto i dedotti profili del difetto di istruttoria e di motivazione. Analoghe considerazioni valgono per la seconda statuizione demolitoria, relativa ai già citati manufatti raccordati da tettoie che, in passato, erano utilizzati per l’allevamento di galline. A tale riguardo, la parte ricorrente ha prodotto una relazione tecnica redatta nel 1966, nell’ambito di una procedura di esecuzione forzata, dalla quale si evince che, a tale data, esistevano già alcune costruzioni in loco. La posizione contraria del Comune fonda su rilievi aerofotogrammetrici del 1944 e del 1973 che, a prescindere dallo scarso livello di definizione, non sono di per sé idonei a dimostrare l’inesistenza dei manufatti nel periodo di specifico interesse, vale a dire nell’arco di tempo compreso fra il 1949 e il 1967. Non emergono, pertanto, circostanze idonee a contrastare la prospettazione di parte ricorrente che, sulla base di elementi idonei a costituire un principio di prova, colloca la costruzione dei manufatti in epoca anteriore al 1967.   Cons. Stato, Sez. VI, Ord. 24 marzo 2017, n. 1337 -  In effetti, nella giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, sembrano potersi individuare sul tema due orientamenti giurisprudenziali, ancorché non sempre compiutamente esplicitati. Secondo il primo orientamento, che parrebbe maggioritario, l’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione e indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso o al di lui avente causa (VI, 10 maggio 2016 n. 1774; VI, 11 dicembre 2013 n. 5943; VI, 23 ottobre 2015 n. 4880; V, 11 luglio 2014 n. 4892; IV, 4 maggio 2012 n. 2592). E si è precisato che ammettere la sostanziale estinzione di un abuso edilizio per decorso del tempo significherebbe configurare una sorta di sanatoria extra ordinem, di fatto, che potrebbe operare anche quando l’interessato non abbia inteso (o potuto) avvalersi del corrispondente istituto legislativamente previsto (VI, 5 gennaio 2015 n. 13). 3. E’ tuttavia presente un secondo orientamento giurisprudenziale, che, conforme a quello invocato dagli appellanti (IV, 4 febbraio 2014, n. 1016), pur consapevole del prevalente indirizzo contrario, individua tuttavia “casi-limite in cui può pervenirsi a considerazioni parzialmente difformi” (VI, 14 agosto 2015 n. 3933): considerazioni che fanno leva sul lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso (o della sua conoscenza da parte dell’Amministrazione: V, 9 settembre 2013 n. 4470, in un caso peraltro in cui la buona fede è stata esclusa), sulla buona fede del soggetto destinatario dell’ordinanza di demolizione diverso dal responsabile dell’abuso e sull’assenza, per mezzo del trasferimento del bene, di un intento volto a eludere la comminatoria del provvedimento sanzionatorio (in tal senso, anche VI, 18 maggio 2015 n. 2512; V, 15 luglio 2013 n. 3847). Nella stessa scia, è stato sottolineato -ma, si badi, in relazione a “semplici difformità” della costruzione dal titolo edificatorio sussistente- che il decorso del tempo incide sulla certezza dei rapporti giuridici e può incidere significativamente con le possibilità di difesa dell’interessato sia rispetto all’amministrazione sia nei confronti del dante causa (V, 15 luglio 2013 n. 3847, seguìta da V, 24 novembre 2013 n. 2013 e IV, 4 marzo 2014 n. 1016; la medesima decisione richiama V, 29 maggio 2006 n. 3270, che, pur facendo riferimento alla rilevanza della tipologia dell’abuso, non limita il principio della rilevanza dell’affidamento alle “semplici difformità”)…. Sussiste dunque un contrasto tra quel filone giurisprudenziale (richiamato dalla sentenza qui appellata) che ritiene ininfluente il decorso del tempo e quell’orientamento (invocato dagli appellanti) che, a determinate condizioni, richiede invece una specifica motivazione in ordine all’adozione di un provvedimento sanzionatorio… In conclusione, il Collegio, ai sensi dell’articolo 99 c.p.a., rimette l’affare all’Adunanza plenaria, perché possa essere decisa la seguente questione: “Se l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (nella specie, trasferito mortis causa) debba essere congruamente motivato sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata quando il provvedimento sanzionatorio intervenga a una distanza temporale straordinariamente lunga dalla commissione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi del provvedimento sanzionatorio”.   Consiglio di Stato, Sez. VI, 8 aprile 2016 n. 1393 - Nel caso di un'ordinanza di demolizione non motivata con riferimento alle ragioni di pubblico interesse, relativa ad alcuni abusi su immobile realizzato nel 1970 e adottata dopo oltre 24 anni dal provvedimento di diniego di condono edilizio, deve ritenersi che  il notevole lasso di tempo trascorso tra la commissione dell'abuso e l'adozione del provvedimento demolitorio, nonchè l'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, possano ingenerare un legittimo affidamento in capo al privato, in relazione al quale grava sul Comune almeno l'individuazione di uno specifico interesse pubblico all'emissione della sanzione demolitoria. Tale interesse deve essere idoneo a giustificare il sacrificio dell'interesse privato, non essendo sufficiente il mero ripristino della legalità. Ciò, nonostante l'ordientamento giurisprudenziale prevalente ritenga che la vetustà dell'opera non esclude il potere di controllo e sanzione dell'amministrazione, il cui esercizio non è soggetto a prescrizione o decadenza.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 20 aprile 2016, n. 380 - Costituisce jus receptum il principio per cui la precarietà del manufatto, la cui realizzazione non necessiterebbe di permesso di costruire, non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso a cui è destinato…nel caso di specie i manufatti, anche laddove considerati precari, risultano funzionali a soddisfare esigenze permanenti dell’attività produttiva in essere e devono quindi essere considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con sicuro incremento di carico urbanistico.     T.A.R. Liguria, Sez. I, 12 febbraio 2015, n. 176 - Considerato che, nel merito, il ricorso appare prima facie fondato in relazione al profilo assorbente di cui al quarto motivo di gravame; - atteso che, in proposito, il vizio dedotto risulta grave e manifesto, in quanto l’amministrazione si è reiteratamente (sia nella comunicazione iniziale sia nell’atto sanzionatorio) limitata a richiamare una intera e complessa norma di piano, senza specificare ed indicare in alcun modo quale fra le diverse e puntuali regole ivi contenute (distanze, parcheggi, destinazione residenziale ecc.) sia rilevante rispetto alla particolare situazione dell’odierno ricorrente; - rilevato che nessun rilievo può essere attribuito alle (invero neppure adeguate) integrazioni parzialmente desumibili dalle difese comunali, sulla scorta ed in applicazione del consolidato principio a mente del quale nel corso del giudizio è inammissibile l'integrazione della motivazione del provvedimento impugnato mediante le deduzioni difensive contenute nella memoria di costituzione; - ritenuto che pertanto il ricorso debba essere accolto, con conseguente annullamento dell’atto impugnato.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 27 gennaio 2015, n. 137 - …considerato che, in primo luogo, a fronte della produzione di documentazione attestante la risalenza dei manufatti ad un’epoca anteriore al 1967, assume rilievo preminente l’orientamento a tenore del quale è illegittima l'ingiunzione di demolizione emessa in relazione ad un manufatto di cui è stata fornita prova non contestata della sua realizzazione in data antecedente al settembre 1967, ossia precedente all'introduzione ex l. ponte 6 agosto 1967 n. 765 dell'obbligo di ottenere la licenza edilizia anche per immobili siti al di fuori dei centri abitati (cfr. ad es. Tar Umbria n. 281\2013); - atteso che, nel caso di specie, se per un verso gli elementi forniti da parte istante costituiscono un elemento di prova dell’epoca di realizzazione non contestato, per un altro verso l’amministrazione non risulta comunque aver effettuato alcun autonomo accertamento in ordine a tale fondamentale presupposto temporale…ritenuto che pertanto il ricorso vada accolto, con conseguente annullamento dell’atto impugnato.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 18 dicembre 2014, n. 1902 - Il ricorso è fondato, sotto l’assorbente profilo dedotto con il primo motivo di ricorso. Con esso la società ricorrente sostiene: che i manufatti oggetto del provvedimento impugnato sono stati edificati prima dell’entrata in vigore della L. n. 765/1967 (che ha esteso a tutto il territorio comunale l’obbligo di chiedere la licenza edilizia per le nuove costruzioni, un tempo limitato ai centri abitati ed alle zona di espansione); che, essendo ubicati fuori dal centro abitato, al momento della loro realizzazione gli stessi non necessitavano di alcun titolo edilizio; che, conseguentemente, non potrebbero essere oggi sanzionati alla stregua di manufatti abusivi…Più precisamente, è l’amministrazione che non ha fornito le ragioni di diritto sulle quali si fonda l’ordinanza di demolizione ex art. 45 comma 1 L.R. n. 16/2008: donde la dedotta violazione di legge, nonché l’eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione. Posto infatti che i manufatti risultano edificati in un’epoca in cui, nel comune di Celle Ligure, non vigeva l’obbligo di munirsi di licenza edilizia per le costruzioni al di fuori dei centri abitati, ne consegue de plano la non abusività dei manufatti e la non sanzionabilità con l’ingiunzione di demolizione.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 29 dicembre 2014, n. 1948 - L’immobile risulta utilizzato in parte a magazzino ed in parte a ricovero animali. Detta utilizzazione, costituente circostanza di fatto dedotta dalla ricorrente, non è smentita dagli atti del procedimento né contestata in sede giudiziale: sicché può considerarsi ex art. 64, comma 2, c.p.a. come provata. Sì da onerare il Comune ad accertare se la costruzione – che soddisfa esigenze temporanee, ancorché cicliche, dell’attività silvo-pastorale svolta dalla ricorrente (cfr, art. 21 lett. g) l.r. 16/2008) – sia effettivamente incompatibile con la disciplina urbanistica della zona da dover essere rimossa o , in alternativa, se la sanzione pecuniaria non sia misura ex se adeguata. Fatto salvo, in relazione al tipo e all’utilizzazione del manufatto realizzato, la tutela del vincolo paesaggistico di cui peraltro l’ordinanza di demolizione impugnata non fa menzione per motivare la rimessione in pristino. Conclusivamente deve essere annullata l’ordinanza di demolizione per difetto di motivazione in relazione agli artt. 31 e 32 d.P.R. 380/2001 e 21 lett. g) l.r. 16 del 2008.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 29 dicembre 2014, n. 1949 - La documentazione fotografica (riferita all’anno 1936), prodotta in giudizio dai ricorrenti e – va sottolineato – non contestata in giudizio dall’amministrazione resistente, assevera una situazione di fatto immotivatamente disattesa dal Comune: il manufatto nella consistenza strutturale qui rilevante preesisteva fin dal 1940. Vale a dire che già sussisteva nel regime giuridico anteriore alla legge (cfr., l. 17 agosto 1942 n. 1150 c.d. legge urbanistica del fondamentale) che ha subordinato l’esecuzione degli interventi edilizi nelle aree urbane al previo conseguimento dei titoli legittimanti. Il dato di fatto è qui dirimente. Va infatti distinta l’irregolarità edilizia formale da quella sostanziale. Il difetto del titolo edilizio, ancorché in ipotesi attesti che l’intervento edilizio non è stato sottoposto a (previo o, nel caso di SCIA, successivo) controllo dell’amministrazione, non denota ex se la violazione della disciplina che individua nel caso concreto gli interventi consentiti (cfr., art. 31 d.P.R. 380/2001 laddove prescrive, prima dell’adozione della sanzione ripristinatoria, l’accertamento dell’intervento abusivo). Anzi, è in atto nell’ordinamento di settore la tendenza a sottovalutare il titolo (formale) autorizzativo in favore della verifica, ancorché eseguita a posteriori, della conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica (cfr. artt. 22 e ss d.P.R. 380 del 2001). Di converso, in assenza di titolo, la conformità edilizia deve essere riferita alla disciplina vigente all’epoca di realizzazione delle opere ed a quella di presentazione della domanda di sanatoria (cfr. art. 36 d.p.R. 380/2001). In definitiva è insita nel sistema di diritto positivo la distinzione fra abusività formale e abusività sostanziale. Che sono nozioni giustapposte e complementari: l’illecito edilizio è tale e deve essere rimosso se ed in quanto sia abusivo sul sia piano formale che su quello sostanziale. Con la precisazione che la violazione sostanziale, per essere affermata, richiede la previa individuazione della disciplina (sostanziale) di ciascuna area come dettata dai regolamenti edilizi e dai piani regolatori. E che, va sottolineato, non è affatto surrogabile dalla normativa prescritta ad altri fini, quale (ad esempio): per motivi d’igiene, di polizia demaniale, di sicurezza dei luoghi, e di tutela paesaggistica. Ossia per interessi pubblici altrettanto rilevanti di quelli urbanistici ma che sono presidiati da specifiche discipline sanzionatorie di settore. Nel caso che ne occupa il Comune, fondandosi sul diniego di condono, ha adottato la sanzione della demolizione per un edificio realizzato senza titolo legittimante, secondo le allegazioni probatorie prodotte dai ricorrenti, e non smentite in giudizio, in epoca anteriore al vigore della legge urbanistica. Non s’è peritato d’individuare la normativa urbanistica di fonte locale, in ipotesi vigente all’epoca di realizzazione del capannone, violata.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 17 dicembre 2014, n. 1847 - Al di là dell’insistito richiamo dell’art. 31 l.u. 1150/1942, contenuto nel ricorso e nelle memorie depositate dalla ricorrente, che circoscrive l’obbligo di licenza edilizia per la sola esecuzione di nuove costruzioni nei centri abitati ove sia vigente il piano regolatore comunale – che, secondo la prospettazione , sarebbe ex sé dirimente, essendo l’immobile localizzato fuori dal perimetro del centro urbano e non essendosi in allora dotato il Comune del P.R.G. – rileva il fatto – pacificamente acquisito in giudizio – che, stando al contenuto dell’atto impugnato, al più l’immobile sarebbe ab origineirregolare dal (solo) punto di vista formale. Non è affatto indicata la disciplina che, nel caso concreto, riferita alla zona, stabilisca l’irregolarità sostanziale del manufatto nella sua originaria consistenza. In altri termini il generico ed astratto riferimento al regolamento edilizio comunale, che fin dal 1929 subordinava la realizzazione di costruzioni al conseguimento della licenza edilizia, non supplisce all’assenza della disciplina urbanistica sostanziale, la cui violazione comporta in parallelo l’illegittimità o illiceità sostanziale dell’opus. Che – va sottolineato – è contenuta ordinariamente negli strumenti urbanistici (ossia in primo luogo nei piani regolatori ed anche – ma solo per specifiche prescrizioni – nei regolamenti edilizi) per ciascuna zona del territorio. Le prescrizioni, contenute nel piano regolatore generale o nel programma di fabbricazione concorrono infatti, a monte, a determinare la disciplina urbanistica sostanziale da osservare nell’elaborazione dei progetti edilizi; e di cui, a sua volta, il titolo edilizio, a valle, ne attesta la conformità. Sicché, contrariamente a quanto suppone il Comune resistente, la mancanza di titolo abilitativo, in assenza della (corrispondente) disciplina urbanistica sostanziale, non depone affatto per l’illiceità della costruzione. Ossia: irregolarità formale, per difetto di titolo abilitativo, e irregolarità sostanziale, per violazione della disciplina che individua nel caso concreto gli interventi consentiti, sono categorie giuridiche disomogenee non affatto sovrapponibili. Non a caso la disciplina sanzionatoria degli abusi edilizi è congegnata e gradata (cfr., artt. 31 e 32 d.P.R. 380/2001) in relazione al tipo e alla misura della violazione delle prescrizioni urbanistiche. Tant’è che – in opposta direzione – l’accertamento di conformità (cfr., art. 37, comma 4, d.P.R. 380/2001) è subordinato alla c.d. doppia conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia (sostanziale) al momento dell’esecuzione delle opere e al momento della presentazione della domanda. Nel caso in esame è pacifico (arg. ex art. 64 c.p.a.), in quanto non contestato dal Comune, che il manufatto preesisteva al 1959, ossia è anteriore all’adozione del primo strumento urbanistico comunale. E, in aggiunta, l’amministrazione resistente non individua, oltre quella formale del previo conseguimento del titolo abilitativo, la prescrizione sostanziale del regolamento edilizio violata dalla costruzione in esame, realizzata in una zona da sempre extraurbana, ed ora assoggettata a vincolo paesaggistico.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 2 dicembre 2014, n. 1761 e 1769 - Ritenuto che l'istanza di permesso a costruire in sanatoria, presentata successivamente all'impugnazione dell'ordinanza che sanziona l’opera abusivamente realizzata, produce l'effetto di rendere improcedibile il gravame per sopravvenuto difetto di interesse e ciò in quanto sussiste l'obbligo di riesame dell'abusività dell'opera mediante l'emanazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o rigetto, che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (v. ad esempio, tra le tante, T.A.R. Lazio, I, 19 giugno 2014 n. 6492; T.A.R. Campania, VIII, 14 maggio 2014, n. 2668; T.A.R. Umbria, 13 marzo 2014, n. 154; C.S., VI, 11 settembre 2013, n. 3528); che, pertanto, il ricorso in esame deve dichiararsi improcedibile.   Con ricorso regolarmente notificato e depositato la ricorrente impugnava il provvedimento di demolizione relativo ad opere edilizie realizzate su beni di sua proprietà. Tuttavia, successivamente alla presentazione del ricorso, la ricorrente presentava una domanda di sanatoria edilizia che veniva tuttavia respinta dall’amministrazione. Avverso tale ultima decisione la sig.a Trimarchi presentava un ricorso straordinario al capo dello Stato, tuttora pendente.   In questa situazione la sezione ritiene ormai cessata la materia del contendere sul ricorso qui scrutinato, poiché l’esito del procedimento avverso la sanatoria edilizia, pendente innanzi al Consiglio di Stato, in sede di ricorso amministrativo, imporrà all’amministrazione di rivalutare complessivamente la situazione edilizia, anche in considerazione della evoluzione, giurisprudenziale e normativa intervenuta nel lungo tempo trascorso tra la proposizione del ricorso ed oggi.   Cons. Stato, Sez. VI, Ord. 12 novembre 2014, n. 5110 - Considerato che, ad una sommaria delibazione, propria della fase cautelare, i motivi di appello non paiono del tutto infondati, in relazione al’effettivo periodo al quale risalirebbe l’immobile, anche secondo quanto emerso dal giudizio penale successivamente alla ordinanza di demolizione, trattandosi di circostanze da accertare in modo compiuto nella sede del merito; Considerata altresì la sussistenza del pregiudizio grave e irreparabile che deriverebbe dalla esecutività della sentenza appellata, trattandosi di ordine di demolizione… sospende l'esecutività della sentenza impugnata.   Cons. Stato, Sez. VI, Ord. 12 novembre 2014, n. 5117 - Considerato che la causa merita di essere definita rapidamente nel merito all’udienza pubblica che fin d’ora viene fissata al 26 maggio 2015; considerato che appare necessario, in vista della definizione del giudizio, far luogo a verificazione al fine di accertare se, in base alla documentazione in atti ed alle opportune verifiche in loco utili ad acclarare in particolare il materiale lapideo utilizzato per il rivestimento del primo e del secondo piano, la realizzazione del secondo piano del fabbricato possa dirsi ricompreso nel provvedimento di condono del 1995 ovvero non possa esservi ricompreso; considerato che nelle more della definizione del merito appare opportuno far luogo alla sospensione della esecutività della impugnata sentenza, al fine di giungere re adhuc integra alla definizione del giudizio.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 7 novembre 2014, n. 1605 - Deve, infatti, rilevarsi come il sistema sia del testo unico dell’edilizia sia della legge regionale 16/08 contempli come unico destinatario dell’ordine di demolizione dell’abuso realizzato su aree demaniali o di enti pubblici il responsabile dell’abuso (art. 35 d.p.r. 380/01 e art. 51 l.r. 16/08). Ne consegue che accertata la sostanziale estraneità della ricorrente alla realizzazione dell’abuso l’amministrazione non poteva ingiungere la demolizione dell’opera nell’esercizio dei suoi poteri di vigilanza e repressione dell’abusivismo edilizio.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 30 ottobre 2014, n. 1514 - Atteso che in proposito va ribadito il principio in ordine alla necessità di garantire il rispetto del contraddittorio procedimentale dinanzi all’amministrazione dotata del potere incisivo di cui in oggetto; - rilevato che tale principio si combina con l’obbligo di motivare i provvedimenti sanzionatori e repressivi; - atteso che nel caso di specie, oltre a mancare una esplicita indicazione delle valutazioni svolte in ordine alla consistenza delle opere ed all’irrilevanza dei precedenti titoli invocati, l’esame dei diversi elementi prodotti in sede procedimentali da parte odierna ricorrente è stato svolto nell’atto impugnato tramite una mera formula di stile; - considerato che, a quest’ultimo proposito, se è pur vero che ai fini della legittimità di un provvedimento non è necessario che la motivazione contenga un'analitica confutazione delle osservazioni e controdeduzioni svolte dalla parte, è comunque necessario che dalla motivazione si evinca che l'amministrazione abbia effettivamente tenuto conto nel loro complesso di quelle osservazioni e controdeduzioni per la corretta formazione della propria volontà o del proprio giudizio; - atteso che nulla di ciò si ricava dall’atto, basato sulla reiterazione di mere formule di stile, anche in ordine ad elementi fondamentali quali quelli forniti da parte ricorrente; -rilevato che il provvedimento impugnato non risulta quindi corredato da una motivazione che renda nella sostanza comunque percepibile la ragione del mancato accoglimento delle deduzioni difensive del privato, ricollegate ai pregressi titoli ed alla consistenza delle opere anche in relazione alla natura dei luoghi ed alle connesse valutazioni.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 21 ottobre 2014, n. 1448 - Costituisce jus receptum il principio a mente del quale l’ordine di demolizione adottato in pendenza di istanza di sanatoria contrasta con la disciplina edilizia la quale impone all'amministrazione di astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, sicché il Comune ha l'obbligo di pronunciarsi sulla sanabilità o meno dell'abuso edilizio, non potendo l'ingiunzione a demolire costituire implicito rigetto della domanda di condono (cfr. ad es. Tar Toscana n. 1196\2013 e Tar Lazio n. 5130\2011); - atteso che, più in generale, in pendenza di domanda di sanatoria, è preclusa all'Amministrazione la possibilità di adottare provvedimenti repressivi dell'abuso edilizio oggetto di detta domanda, in quanto la repressione renderebbe inane la domanda di sanatoria che non potrebbe più svolgere la sua funzione di ricondurre a legittimità la costruzione abusiva, cosicché, proprio per consentire a tale domanda di esplicare i suoi effetti legittimanti sempre che ricorrano le condizioni di legge, l'Amministrazione deve prioritariamente pronunciarsi su essa.   Cons. Stato, Sez. VI, 3 ottobre 2014, n. 4963 e 4966 -  In primo luogo si osserva che la sentenza in epigrafe è effettivamente meritevole di riforma per non avere i primi Giudici valutato in modo adeguato la circostanza per cui alcuni fra gli interventi elencati nei provvedimenti comunali del 30 novembre 2012 costituissero altresì oggetto di istanze di sanatoria edilizia proposte dalla società appellante ai sensi della l. 326 del 2003 (istanze allo stato non ancora definite). Ed infatti, dall’esame dei provvedimenti impugnati in primo grado (in particolare: pagine 2, 3 e 4 del provvedimento n. 1620 e pagina 2 del provvedimento n. 1621) emerge che il Comune di Torre del Greco dapprima e il T.A.R. poi abbiano fondato le proprie deduzioni sugli esiti dei (cinque) sopralluoghi effettuati fra il novembre del 2011 e il giugno del 2012 e sulle rilevate difformità fra: - (da un lato) la consistenza degli interventi per come rappresentati nelle domande di sanatoria proposte nel corso del 1995 ai sensi della l. 724 del 1994 e - (dall’altro) la consistenza dei medesimi interventi per come emersa all’esito dei richiamati sopralluoghi. Tuttavia, né il Comune appellato, né il T.A.R. della Campania hanno adeguatamente valutato l’intervenuta presentazione, da parte della società appellante, di istanze di condono ai sensi dell’articolo 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 – convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326 – (ossia, ai sensi di una normativa di alcuni anni successiva rispetto a quella del 1994, sulla cui base erano state proposte le domande di sanatoria richiamate del Comune appellato nell’ambito dei provvedimenti impugnati in primo grado). In particolare, le istanze in questione riguardavano (secondo deduzioni non contestate in atti): - le variazioni prospettiche, la recinzione, le sbarre e i serbatoi nell’ambito dell’area destinata a parcheggio di autotreni (area ‘E’); - la nuova tettoia, la sostituzione di una copertura, delle pensiline e delle scale nell’ambito dell’area destinata ad uffici (area ‘F’); - il passo carrabile e la nuova ringhiera nell’ambito dell’area destinata a lavaggio vetture (area ‘G’). Al riguardo deve essere richiamato il consolidato – e qui condiviso – orientamento secondo cui, se è pur vero che la presentazione di un’istanza di sanatoria non inficia la legittimità dell’ordine di demolizione impartito in precedenza quando la domanda di sanatoria sia stata poi respinta, è altresì vero che la presentazione di una siffatta richiesta impedisce che l'amministrazione, prima del suo esame, possa attivarsi per eliminare un abuso che potrebbe potenzialmente essere sanato e determina – di conseguenza – la temporanea sospensione degli effetti dell’ordine di demolizione già impartito (in tal senso –ex plurimis -: Cons. Stato, V, 31 marzo 2014, n. 1546; id., VI, 14 marzo 2014, n. 1292; id., VI, 7 maggio 2009, n. 2833). La giurisprudenza di questo Consiglio ha recentemente chiarito, al riguardo, che la presentazione di una domanda di sanatoria di abusi edilizi determina l’inefficacia dei precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizione, inibitorie, ordini di sospensione dei lavori) atteso che, sul piano procedimentale, il Comune è tenuto innanzi tutto ad esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di condono effettuando, comunque, una nuova valutazione della situazione (Cons. Stato, V, 23 giugno 2014, n. 3143). In definitiva, la sentenza in epigrafe è meritevole di riforma per non avere i primi Giudici tratto le necessarie conseguenze dall’intervenuta presentazione di istanze di sanatoria successive ed ulteriori rispetto a quelle menzionate nei provvedimenti in primo grado (e riferite a una diversa normativa abilitante) e per aver ritenuto di potersi pronunciare sugli effetti degli ordini di demolizione impugnati in primo grado a prescindere dalla previa – e necessaria – definizione delle nuove istanze di condono. Anzi, i primi Giudici hanno ritenuto – in modo non condivisibile e in base a una prospettazione di fatto opposta rispetto a quella qui individuata – che l’oggettiva differenza fra gli interventi indicati nell’istanza di condono ai sensi della l. 326 del 2003 e quelli effettivamente realizzati e rilevati con gli accessi del 2011-2012 confermasse la correttezza dell’operato del Comune appellato (nella tesi dei primi Giudici, infatti, il carattere di novità di tali ultimi interventi rispetto a quelli dichiarati con le istanze di sanatoria del 2005 confermerebbe ex se la correttezza della scelta del Comune di non tenere in considerazione tale sopravvenienza di fatto e validerebbe, altresì, la scelta del Comune di considerare tout-court non sanabili gli ulteriori interventi non contemplati nelle istanze di sanatoria presentate ai sensi della l. 724 del 1994). 3.3. Vi è poi un ulteriore elemento che depone nel senso della complessiva inattendibilità (e della parziale contraddittorietà) delle deduzioni e dell’attività istruttoria poste a fondamento dei provvedimenti comunali impugnati in primo grado: ci si riferisce alla ritenuta carenza di alcun titolo abilitativo per quanto riguarda il muro di contenimento in cemento armato composto di due tratti (per una lunghezza totale pari a circa 62 ml) richiamato al punto 3 della pagina 4 del provvedimento comunale n. 1620 del 30 novembre 2012.    E’ qui appena il caso di richiamare il maggioritario - e qui condiviso - orientamento secondo cui il necessario riesame dell'abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'originario ricorso (sul punto –explurimis -: Cons. Stato, IV, 28 novembre 2013; id., V, 31 ottobre 2012, n. 5553; id., IV, 12 maggio 2010, n. 2844).   T.A.R. Liguria, Sez. I, 23 settembre 2014, n. 1354 - È ius receptum, da cui non sussistono giustificati motivi per qui discostarsi, che la delimitazione di appezzamenti di terreno necessari per svolgere l’attività d’impresa, oltre a costituire, se non diversamente previsto, una facoltà consentita dall’ordinamento al proprietario o all’esercente l’attività, non integri ex se alcun abuso edilizio (cfr., Tar Toscana , sez. III, 12 marzo 2013 n. 405; Id. 18 novembre 2011 n. 1824). Specie nel caso – come quello in esame – della realizzazione di recinzione in struttura e modalità c.d. leggere: ossia con l’infissione di paletti di legno collegati fra loro con filo di ferro, conformi, oltretutto, alla tipologia propria della pratica silvo-pastorale.   Cons. Stato, Sez. V, 10 settembre 2014, n. 4593 - Ed invero, osserva il collegio come anche nel caso di un intervento di ristrutturazione edilizia abusiva, l'art.9 della legge 47/85 prevedesse la demolizione delle relative opere e la rimessione in pristino quando ciò fosse stato possibile senza pregiudizio per la parte conforme, al pari di quanto disponeva l’art.7 della medesima legge per gli interventi edilizi realizzati in assenza o totale difformità dalla concessione. Ed al riguardo, va rilevato che nel ricorso non viene in alcun modo contestata l'impossibilità di procedere al ripristino della situazione pregressa, ciò che avrebbe aperto la strada alla sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, sempre come disposto dal richiamato art.9 della l. 47/85. Sul piano sostanziale, pertanto, l'ingiunzione a demolire le opere abusive disposta dall’Amministrazione era in ogni caso un atto necessitato, a prescindere dai formali richiami normativi operati che, ripetesi, non incidono di per sé sulla sanzione irrogata.   T.A.R. Liguria, Sez. II, 3 settembre 2014, nn. 1334 e 1336 - Per costante orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, la presentazione dell'istanza prevista dall'art. 13 citato (ora dall'art. 36 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione, produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione stessa, per carenza di interesse, in quanto l'istanza comporta la perdita di efficacia di tale ordinanza (cfr., ex multis, T.A.R. Liguria, Sez. I, 21 maggio 2013, n. 800). Inoltre, il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall'istanza di sanatoria, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr. fra le ultime, T.A.R. Sicilia-Palermo, Sez. II, 4 settembre 2013, n. 1640).   T.A.R. Liguria, Sez. I, 27 agosto 2014, n. 1302 - La presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e, quindi, improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse; ed infatti il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall'istanza di sanatoria, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l'Amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi.    T.A.R. Liguria, Sez. I, 25 giugno 2014, n. 1015 - Rilevato che, alla luce della documentazione versata in atti e come evidenziato dalle puntuali difese anche comunali, risulta pendente il procedimento sulla domanda di sanatoria, in ordine alla quale dovrà la p.a. determinarsi; - atteso che in proposito va ribadito che l’orientamento (cfr. ad es. CdS 2280\2013, Tar Piemonte 617\2014 e Tar Liguria n. 800\2013) in tema di improcedibilità del gravame proposto avverso atto sanzionatorio antecedente la successiva proposizione di domanda di sanatoria.     T.A.R. Liguria, Sez. I, 5 giugno 2014, n. 875 - A differenza della presentazione di un’istanza di sanatoria ordinaria o per doppia conformità ex art. 13 L. n. 47/1985 (ora art. 36 D.P.R. n. 380/2001), per la quale non vi è alcuna disposizione di legge in forza della quale essa renderebbe irrilevanti i precedenti ordini di demolizione e gli altri atti sanzionatori (Cons. di St., VI, 9.4.2013, n. 1909; nello stesso senso T.A.R. Liguria, I, 5.2.2011, n. 226), nel caso di presentazione di un’istanza di sanatoria straordinaria o condono, il procedimento sanzionatorio ed il connesso procedimento giurisdizionale restano sospesi fino alla definizione dell'istanza medesima, in forza di un’espressa previsione di legge (art. 38 della legge n. 47/1985, richiamata dalla L. n. 326/2003).   Per costante giurisprudenza, “dalla domanda di concessione in sanatoria per abusi edilizi ai sensi della L. n. 47 del 1985 (fonte richiamata dalle successive leggi di condono), nasce per il comune competente l'obbligo di esaminarla in vista dei provvedimenti conseguenti. Segue da ciò che gli atti repressivi dell'abuso in precedenza adottati perdono efficacia, salva la necessità di una loro rinnovata adozione nell'eventualità di un successivo rigetto dell'istanza di sanatoria” (Cons. di St., IV, 10.7.2013, n. 3662; id., V, 19.4.2013, n. 2221).   T.A.R. Liguria, Sez. I, 5 maggio 2014, n. 711 - La sanzione per la ristrutturazione seguita in assenza di titolo è soltanto la demolizione, non essendo prevista l’ulteriore sanzione dell’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’opera abusiva in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione. Ne consegue che il provvedimento impugnato, in disparte la circostanza che lo stesso contenga un riferimento errato alle norme di legge invocate, circostanza questa che può al più configurare una mera irregolarità non viziante del provvedimento stesso, laddove prefigura la successiva acquisizione gratuita del bene a patrimoni comunale si appalesa illegittimo e deve per questa parte essere annullato (v. anche T.A.R. Liguria, Sez. I, 28 aprile 2014, n. 657).     T.A.R. Liguria, Sez. I, 14 novembre 2013, n. 1367 - Illegittima l'ingiunzione in pristino stato volta a sanzionare la realizzazione di incrementi volumetrici intesi al miglioramento energetico ed all'adeguamento tecnologico degli edifici.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 22 novembre 2012, n. 1459 - E' illegittima -- per difetto del presupposto assunto a fondamento e per difetto di motivazione -- l'ordinanza di demolizione che non indichi le norme di legge o di piano che hanno indotto alla configurazione della sanzione come unica ipotizzabile.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 8 novembre 2012, n. 1392 - I provvedimenti di demolizione, in quanto atti rigidamente vincolati, non richiedeono alcuna valutazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico

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T.A.R. Liguria, Sez. I, 8 novembre 2012, n. 1393 - Una recinzione metallica realizzata mediante posa di essa su una muratura è riconducibile alla categoria edilizia della manutenzione straordinaria (art. 7, comma 2, lett. g) della L.R. 6 giugno 2008, n. 16 e s.m.i.).

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Corte Cost., 3 novembre 2016, n. 321 Le censure del Governo   Secondo il Governo i commi 3, 8, secondo trattino, e 11, terzo trattino, dell’art. 6 della legge reg. Liguria n. 12 del 2015 contrasterebbero con l’art. 117, terzo comma, Cost. Con tali disposizioni, il legislatore regionale ha, per un verso, incluso nella nozione di manutenzione ordinaria l’installazione, all’esterno degli edifici, di impianti tecnologici e di elementi di arredo urbano «e privato pertinenziali non comportanti la creazione di volumetria» (art. 6, comma 3, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015, che modifica l’art. 6, comma 2, secondo trattino, della legge regionale n. 16 del 2008, eliminando l’inciso contenuto nella previsione novellata, secondo cui i medesimi interventi rientravano nella manutenzione ordinaria solo se «non comportanti opere edilizie». Per altro verso, ha assoggettato al regime di edilizia libera «l’installazione di opere di arredo pubblico e privato, anche di natura pertinenziale, purché non comportanti creazione di nuove volumetrie, anche interrate» (art. 6, comma 8, secondo trattino, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015, che modifica l’art. 21, comma 1, della legge reg. n. 16 del 2008), escludendoli dall’ambito di applicazione della SCIA, cui erano prima subordinati (art. 6, comma 11, terzo trattino, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015, che modifica l’art. 21-bis, comma 1, della legge reg. n. 16 del 2008). Il ricorrente reputa che il legislatore regionale abbia ampliato l’àmbito dei lavori di «manutenzione ordinaria» fino a ricomprendervi tipologie di interventi edilizi ‒ quali appunto l’installazione di impianti tecnologici e di elementi di arredo privato pertinenziali comportanti opere edilizie ‒ che esulerebbero dalla definizione fornita dall’art. 3, comma 1, lettera a) del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A, di seguito “TUE”), contenente i principi fondamentali della legislazione statale in materia di «governo del territorio». L’installazione degli impianti tecnologici e degli arredi, in base al citato art. 3, del TUE, dovrebbe essere ricompresa: tra gli «interventi di manutenzione straordinaria» se rientrante tra le opere e le modifiche necessarie per «realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici» (art. 3, comma l, lettera b, del TUE); tra gli «interventi di ristrutturazione edilizia», se comportante «l’inserimento di nuovi elementi ed impianti» (art. 3, comma l, lettera d, del TUE); tra gli «interventi di nuova costruzione» ove integri «interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione» o comporti «la realizzazione di un volume superiore al 20 per cento del volume dell’edificio principale» (art. 3, comma l, lettera e.6, del TUE). Il ricorrente precisa che la questione di costituzionalità investe anche la disciplina della realizzazione degli impianti tecnologici ‒ sebbene già l’art. 6, comma 2, secondo trattino, della legge reg. n. 16 del 2008 li annoverasse alla lettera i) ‒ in quanto dopo le modifiche introdotte essi rientrerebbero nel novero degli interventi di manutenzione ordinaria anche se comportanti opere edilizie (sia pure alla condizione che non si determini un aumento di volumetria). La nozione di interventi «non comportanti opere edilizie» (espressione ricorrente nella formulazione originaria dell’art. 6, comma 2, lettera i) della legge reg. n. 16 del 2008) e quella di interventi «non comportanti la creazione di nuove volumetrie» non sarebbero affatto equivalenti. Ciò che importerebbe ai fini della rilevanza edilizia dell’opera non sarebbe infatti la creazione o meno di volumetria, né la realizzazione dell’opera in spazi aperti anziché chiusi, ma il carattere di solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, e la sua idoneità a determinare una trasformazione permanente del territorio rispetto alla sua condizione naturale. Per effetto della sua illegittima qualificazione come intervento di manutenzione ordinaria, la realizzazione delle opere sopra considerate verrebbe inclusa tra gli interventi edilizi eseguibili liberamente (ai sensi dell’art. 21 della legge reg. n. 16 del 2008), in contrasto con la disciplina statale. Anche i commi 8, secondo trattino, e 11, terzo trattino, dell’art. 6 della legge reg. Liguria n. 12 del 2015 contrasterebbero con la normativa statale di riferimento. L’«installazione di opere di arredo pubblico e privato, anche di natura pertinenziale, purché non comportanti creazione di nuove volumetrie, anche interrate», infatti, non si identificherebbe con la realizzazione degli «elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici», che possono essere eseguiti senza titolo abilitativo ai sensi dell’art. 6, comma 2, del TUE. A questo riguardo, il Governo osserva che la norma regionale fa riferimento alla installazione di opere di arredo pubblico e privato “anche” (e non “solo”) di natura pertinenziale, mentre l’art. 6, comma 2, lettera e), del TUE si riferisce agli «elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici». Pertanto, mentre la norma statale consentirebbe interventi liberi per l’installazione di arredi solo su aree di pertinenza degli edifici, quella regionale permetterebbe di realizzare arredi, sia pubblici che privati, anche su aree non pertinenziali, includendo potenzialmente anche gli interventi di privati su aree demaniali di tipo non pertinenziale. Inoltre, a differenza della disciplina regionale, l’art. 6, comma 2, del TUE assoggetta a comunicazione di inizio attività l’esecuzione di tali interventi. 1.2.‒ Il secondo ordine di censure si appunta sull’art. 6, comma 6, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015. La disposizione, modificando l’art. 18 della legge reg. n. 16 del 2008, consente di derogare alla normativa statale in materia di distanze degli edifici in caso di interventi di recupero dei sottotetti esistenti ‒ anche se non compresi, come previsto dalla disciplina pregressa, tra gli interventi sul patrimonio edilizio o tra quelli di ristrutturazione edilizia ‒ onde consentire il rispetto dell’allineamento dell’edificio preesistente. Secondo il Governo, la riformulazione dell’art. 18 della legge reg. n. 16 del 2008, con la sostituzione delle parole «ivi compresi» con la parola «nonché» avrebbe mutato il contenuto della norma rispetto al testo precedente. Infatti, l’inciso «interventi di recupero dei sottotetti esistenti», non più collegato ad ipotesi di «interventi sul patrimonio edilizio esistente fino alla ristrutturazione edilizia», potrebbe essere riferito anche ad interventi di carattere mirato. Di conseguenza la disciplina derogatoria dei limiti di distanza fissati dall’articolo 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L. 6 agosto 1967, n. 765) verrebbe estesa anche ad interventi su singoli edifici, non oggetto di un più ampio intervento sul patrimonio edilizio esistente. La disposizione regionale, in difformità dall’articolo 2-bis del TUE, non sarebbe finalizzata a soddisfare esigenze di carattere urbanistico, in quanto non realizzerebbe un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio. Non costituendo espressione della competenza legislativa regionale in materia urbanistica, essa invaderebbe la materia dell’«ordinamento civile» in violazione dei principi contenuti nell’art. 117, secondo comma, lettera l), e nell’art. 117, terzo comma, Cost. con riferimento alla materia del «governo del territorio» (si citano le sentenze della Corte n. 232 del 2005 e n. 134 del 2014). 1.3.‒ Osserva ancora il Governo che l’art. 6, comma 11, secondo trattino, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015, assoggettando a SCIA gli interventi di ristrutturazione edilizia «con contestuali modifiche all’esterno», si porrebbe in contrasto con l’articolo 10, comma l, lettera c), del TUE. Secondo quest’ultima disposizione, infatti, costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire (oppure a DIA alternativa, ai sensi dell’art. 22, comma 3, lettera a, del TUE) «gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti […]». Il denunciato contrasto comporterebbe la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. perché le norme statali sulla SCIA attengono alla materia della «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni», nonché la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto le norme relative ai titoli abilitativi contenute nei menzionati articoli del TUE costituiscono principi fondamentali in materia di «governo del territorio».   Le controdeduzioni della Regione Liguria   2.1.‒ Quanto al paventato contrasto della disposizione contenuta nell’art. 6, comma 3, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015 con l’art. 3, comma l, lettera a), del d.P.R. 380 del 2001, la Regione Liguria ha eccepito in via pregiudiziale l’inammissibilità della questione nella parte relativa all’installazione di impianti tecnologici. La modifica apportata alla legislazione regionale pregressa non avrebbe riguardato tale categoria di interventi (già prevista nell’originaria disposizione regionale), bensì si sarebbe limitata ad inserire negli interventi di manutenzione ordinaria la fattispecie dell’installazione di elementi di arredo privato di natura pertinenziale, nel frattempo inserita dal legislatore fra gli interventi di attività edilizia libera nell’art. 6, comma 2, lettera e), del testo unico edilizia. In ogni caso, la disciplina regionale relativa all’installazione di impianti tecnologici sarebbe pienamente coerente con la definizione statale degli interventi di manutenzione ordinaria. Difatti la disposizione impugnata dovrebbe intendersi esclusivamente riferita alle installazioni di impianti necessarie per l’integrazione e il mantenimento in efficienza degli impianti tecnologici esistenti (quali ad esempio quelli di riscaldamento e di climatizzazione), sempreché non comportino alterazioni dell’aspetto esterno del fabbricato e delle sue pertinenze (caso quest’ultimo in cui gli interventi rientrerebbero nella fattispecie della manutenzione straordinaria di cui all’art. 7, comma 2, lettera e, della legge reg. n. 16 del 2008). Sotto altro profilo, occorrerebbe considerare che l’attuale formulazione dell’art. 6, comma 1, lettera a) del TUE – come modificato dal decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito in legge 11 novembre 2014, n. 164 – ha ricompreso nell’ambito della manutenzione ordinaria gli interventi di installazione di pompe di calore aria di potenza non inferiore a 12 kW. Nemmeno le censure sollevate con riguardo alla riconduzione al regime dell’attività edilizia libera dell’installazione di «opere di arredo pubblico e privato, anche di natura pertinenziale, purché non comportanti creazione di volumetria» sarebbero fondate. Le opere di arredo oggetto delle previsioni censurate sarebbero assimilabili alle fattispecie di attività edilizia libera individuate dalla normativa statale di principio agli artt. 3, comma l, lettera a), e 6, comma 2, lettera e) del d.P.R. n. 380 del 2001. La modifica alla precedente disposizione regionale riguarderebbe, infatti, elementi di arredo privato di natura pertinenziale che, in quanto non comportanti creazione di volumetria (e cioè non concretanti la creazione di manufatti chiusi), non presenterebbero alcuna rilevanza sotto il profilo edilizio, consistendo, ad esempio, nell’installazione di panchine, fioriere, gazebo aperti che sono da posizionare in spazi esterni alla costruzione principale. Si rileva anche che la legge reg. n. 16 del 2008 aveva mantenuto correttamente distinte le opere di arredo di irrilevante impatto urbanistico-edilizio, dai manufatti pertinenziali aventi rilevanza urbanistico-edilizia (disciplinati dall’art. 17 della medesima legge reg. n. 16 del 2008). La disposizione regionale censurata, tra l’altro, avrebbe introdotto una modifica restrittiva rispetto alla corrispondente fattispecie prevista all’art. 6, comma 2, lettera e) del d.P.R. n. 380 del 2001. Infatti, a fronte della generica formulazione statale «elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici», il legislatore regionale ha individuato gli elementi di arredo privato suscettibili di rientrare nella fattispecie a riferimento in quelli «non comportanti creazione di volumetria», restringendo così il campo di applicazione della norma statale. 2.2.‒ Quanto alla disposizione riguardante la deroga alle distanze legali in caso di interventi di recupero a fini abitativi dei sottotetti, la Regione osserva che la norma impugnata avrebbe fornito concreta applicazione dall’art. 2-bis del TUE. La regola dell’allineamento stabilita all’art. 18, comma l, della legge reg. n. 16 del 2008 perseguirebbe specifiche finalità di natura urbanistica e di adeguato assetto del territorio, in quanto volta a garantire che gli interventi di recupero a fini abitativi dei locali sottotetto (assentibili in base alla legge reg. Liguria 6 agosto 2001, n. 24, recante «Recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti») non determinino effetti di disorganico inserimento nel contesto urbanistico-edilizio degli innalzamenti della costruzione funzionali al recupero dei sottotetti, effetti che potrebbero impropriamente determinarsi laddove, in assenza della previsione impugnata, per il generale rispetto della distanza minima di metri 10,00 da pareti finestrate, risultassero necessari arretramenti rispetto al filo della costruzione, non compatibili con l’assetto urbanistico-edilizio dell’edificato esistente. 2.3.‒ Con riguardo agli interventi di ristrutturazione edilizia comportanti incrementi della superficie all’interno delle singole unità immobiliari o dell’edificio «con contestuali modifiche all’esterno», la Regione deduce che, con la previsione oggetto di impugnazione, sarebbero stati assoggettati a SCIA soltanto quei tipi di ristrutturazione edilizia che interessano essenzialmente l’interno degli edifici esistenti (e, cioè, comportanti operazioni di ridistribuzione delle superfici all’interno della scatola volumetrica attraverso lo spostamento di solai) e che non implicano né interventi di demolizione e ricostruzione, né modifiche della sagoma, né ampliamento di volumetria originaria (tali fattispecie rientrerebbero nelle previsioni rispettivamente della successiva lettera e-bis dell’art. 21-bis e dell’art. 23, comma l, lettera b, della legge reg. n. 16 del 2008). Le «contestuali modifiche all’esterno» potrebbero consistere soltanto in modifiche di dettaglio delle facciate esistenti quali gli adattamenti delle bucature o di altri elementi già presenti e che siano connessi ai lavori di ristrutturazione interna, e non in modifiche della dimensione e delle caratteristiche essenziali dei prospetti. In via subordinata, la Regione stigmatizza l’incoerenza del legislatore statale, il quale, mentre (con le recenti modifiche apportate al TUE agli artt. 3, comma l, lettera d, e 10, comma l, lettera c) ha espressamente eliminato l’obbligo di rispetto della sagoma originaria per gli interventi di ristrutturazione edilizia comportanti demolizione e ricostruzione, assoggettando a SCIA tale operazione, avrebbe invece mantenuto assoggettati a permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione che comportino modifiche dei prospetti, trascurando di considerare che il concetto di sagoma secondo la comune definizione tecnico-edilizia racchiuderebbe anche quello di prospetto. 2.4.‒ Per un altro profilo, la censura sollevata con riferimento all’art. 6, comma 15 della legge impugnata ‒ che ha assoggettato a DIA “obbligatoria” gli interventi di ristrutturazione edilizia comportanti mutamenti di destinazione d’uso aventi ad oggetto immobili compresi nelle zone omogenee A o ambiti ad esse assimilabili ‒ si fonderebbe su una inesatta ricostruzione della natura della DIA “obbligatoria” regolata dall’art. 23, comma l, della legge reg. n. 16 del 2008. Nell’ordinamento regionale ligure, la DIA “obbligatoria” costituirebbe propriamente una DIA “sostitutiva” del permesso di costruire, conforme a quanto previsto dall’art. 22, comma 3, del TUE. 2.5.‒ Da ultimo, con riguardo alla impugnazione dell’art. 6, commi 20 e 21, viene fatto osservare che il legislatore regionale, a fronte dell’art. 17, comma 4 del TUE, che individua il presupposto per assoggettamento a contributo nell’incremento del carico urbanistico «purché ne derivi un incremento della superficie calpestabile», ha inteso rendere in concreto operativa la norma statale di principio, specificando puntuali criteri idonei a definire, sia i presupposti per la sussistenza dell’incremento del carico urbanistico (art. 38, comma l), sia le condizioni per la sussistenza dell’aumento della superficie calpestabile (art. 39, comma l, lettera g-bis, e comma 2-bis). L’obiettivo delle modifiche introdotte dalla legge reg. Liguria n. 12 del 2015 sarebbe di far sì che un incremento della superficie agibile assuma rilevanza in termini di carico urbanistico aggiuntivo solo se di entità tale da consentire l’insediamento di almeno un nuovo abitante teorico (cui corrisponde, in base al d.m. n. 1444 del 1968, una superficie quantificabile in 25 mq), oppure se l’intervento, pur non comportando incrementi delle superfici originarie, determini la realizzazione di un numero di unità immobiliari che si risolva in un oggettivo aumento del peso insediativo.   La Corte   2.– Con un primo ordine di motivi, il ricorrente impugna l’art. 6, commi 3, 8, secondo trattino, e 11, terzo trattino, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015, nella parte in cui, per un verso, ha incluso nella nozione di manutenzione ordinaria l’installazione, all’esterno degli edifici, di impianti tecnologici o di elementi di arredo urbano «e privato pertinenziali non comportanti la creazione di volumetria» (così l’art. 6, comma 3, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015, che modifica l’art. 6, comma 2, della legge della Regione Liguria 6 giugno 2008, n. 16, recante «Disciplina dell’attività edilizia»), eliminando l’inciso secondo cui i medesimi interventi rientravano nella manutenzione ordinaria solo se «non comportanti opere edilizie»; per altro verso, ha assoggettato al regime di edilizia libera «l’installazione di opere di arredo pubblico e privato, anche di natura pertinenziale, purché non comportanti creazione di nuove volumetrie, anche interrate» (così l’art. 6, comma 8, secondo trattino, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015, che modifica l’art. 21, comma 1, della legge reg. n. 16 del 2008), escludendole dall’ambito di applicazione della SCIA, cui erano prima subordinate (così l’art. 6, comma 11, terzo trattino, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015, che modifica l’art. 21-bis, comma 1, della legge reg. n. 16 del 2008). Le disposizioni regionali citate violerebbero l’art. 117, terzo comma, Cost., in riferimento ai principi fondamentali della legislazione statale in materia di «governo del territorio» contenuti nel d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A» (di seguito “TUE”), in quanto gli interventi menzionati non rientrerebbero nell’àmbito dei lavori di manutenzione ordinaria come definiti dall’articolo 3 del TUE, né sarebbero identificabili con gli «elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici» di cui all’art. 6, comma 2, del TUE. Per effetto di tale illegittima qualificazione, la realizzazione delle opere in questione verrebbe inclusa tra gli interventi edilizi eseguibili liberamente (ai sensi dell’art. 21 della legge reg. n. 16 del 2008), senza nemmeno l’onere della previa comunicazione di inizio attività. I profili di censura concernenti l’installazione di impianti tecnologici devono essere trattati separatamente da quelli riferiti alle opere di arredo. 2.1.– Quanto alla installazione di impianti tecnologici, la difesa regionale eccepisce preliminarmente che il motivo di ricorso sarebbe inammissibile, dal momento che l’oggetto delle modifiche apportate dalla legge reg. Liguria n. 12 del 2015 andrebbe esclusivamente circoscritto alla sostituzione delle originarie parole «non comportanti opere edilizie» con le parole «e privato pertinenziali non comportanti creazione di volumetria». L’eccezione non è fondata. La struttura sintattica dell’enunciato riferisce la modifica dell’inciso anche agli impianti tecnologici (il connettivo “o” posto tra «impianti tecnologici» e «elementi di arredo urbano e privato pertinenziali» è utilizzato come disgiunzione inclusiva e non esclusiva). La disposizione impugnata, dunque, ha l’effetto di includere innovativamente tra gli interventi di manutenzione ordinaria anche l’installazione di impianti tecnologici «comportanti opere edilizie ma senza creazione di nuova volumetria». Sussiste, dunque, l’interesse del Governo all’impugnazione. La questione, nel merito, è fondata. Secondo la giurisprudenza costituzionale, la definizione delle categorie di interventi edilizi a cui si collega il regime dei titoli abilitativi costituisce principio fondamentale della materia concorrente del «governo del territorio», vincolando la legislazione regionale di dettaglio (sentenza n. 303 del 2003; in seguito, sentenze n. 259 del 2014, n. 171 del 2012; n. 309 del 2011). Cosicché, pur non essendo precluso al legislatore regionale di esemplificare gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali, tale esemplificazione, per essere costituzionalmente legittima, deve essere coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell’edilizia. L’art. 6 del TUE identifica le categorie di interventi edilizi c.d. “liberi”, ovvero non condizionati al previo ottenimento di un assenso da parte dell’amministrazione, distinguendo: le attività libere per le quali l’interessato è del tutto esonerato da oneri (art. 6, comma 1); le attività libere per le quali viene prescritta una comunicazione dell’interessato di inizio dei lavori, cosiddetto “cil” (art. 6, comma 2); le attività libere che richiedono comunicazione di inizio dei lavori asseverata da tecnico abilitato, cosiddetto “cila” (art. 6, comma 4). Nel novero delle attività completamente deformalizzate, il TUE include «gli interventi di manutenzione ordinaria», definiti come «gli interventi edilizi che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti» (art. 3, comma 1, lettera a, del TUE). La previsione impugnata, non limitandosi a considerare l’integrazione o il mantenimento in efficienza di impianti tecnologici già esistenti, e includendo, con l’espressione «installazione», anche la realizzazione di nuovi impianti (sia pure non comportanti la creazione di volumetria), si pone in contrasto con la disciplina del TUE che assoggetta quest’ultima tipologia di intervento al regime della cila o della SCIA, a seconda della consistenza del manufatto. Al fine di dimostrare la coerenza della disposizione impugnata con la citata nozione statale di «manutenzione ordinaria», la Regione resistente sottolinea che, nell’impianto della legge reg. Liguria n. 16 del 2008, gli impianti tecnologici sono presi in considerazione anche da altre norme, che riservano ad essi un regime differenziato in ragione di loro caratteristiche strutturali. Così, in particolare: le opere di adeguamento, rinnovo e sostituzione di impianti tecnologici comportanti «alterazione delle caratteristiche distributive» sono incluse nella definizione di «manutenzione straordinaria» (art. 7, comma 2, lettera e); le opere di natura pertinenziale (tra le quali l’art. 17, comma 3, include anche gli impianti tecnologici) sono subordinate a DIA “obbligatoria” se comportanti creazione di volumetria (ai sensi dell’art. 23, comma 1, lettera c); la «realizzazione di impianti tecnologici, anche comportanti la realizzazione di volumi tecnici, diversi da quelli al servizio di edifici o di attrezzature esistenti», è anch’essa subordinata a DIA “obbligatoria” (ai sensi dell’art. 23, comma 1, lettera e). Tuttavia, la lettura sistematica di tali disposizioni non esclude, bensì accresce, l’ambiguità semantica della disposizione impugnata, la quale può assumere il significato di consentire che, al di fuori delle ipotesi appena menzionate, manufatti tecnologici vengano realizzati senza alcuna forma di controllo edilizio, neppure indiretta mediante denuncia, in violazione del limite generale fissato dalla legislazione statale di principio. Non vale, del resto, a superare la censura di estraneità dell’oggetto della previsione regionale alla nozione statale di manutenzione ordinaria, neppure l’inclusione in quest’ultima ad opera del TUE ‒ a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 17, comma 1, lettera c), numero 01), del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014 n. 164 ‒ degli «interventi di installazione di pompe di calore aria-aria di potenza non inferiore a 12 kW». La novella non modifica invero la nozione generale contenuta all’art. 3, comma 1, lettera a), del TUE, alla quale soltanto occorre fare riferimento per stabilire il regime edilizio di opere per le quali manchino espresse indicazioni normative. 2.2.– Con riguardo al profilo di impugnazione concernente le opere di arredo, va precisato che l’art. 6, comma 3, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015 riconduce nella nozione di manutenzione ordinaria ‒ e, quindi, al regime giuridico della edilizia libera, ai sensi dell’art. 21, comma 1, lettera a) della legge reg. n. 16 del 2008 ‒ l’installazione di «elementi di arredo urbano e privato pertinenziali non comportanti creazione di volumetria» (art. 6, comma 2, lettera i, della legge reg. n. 16 del 2008 come novellato). Nel contempo, l’art. 6, commi 8, secondo trattino, e 11, terzo trattino, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015 ha incluso nel novero delle attività edilizie “libere” l’«installazione di opere di arredo pubblico e privato, anche di natura pertinenziale, purché non comportanti creazione di nuove volumetrie, anche interrate» (art. 21, comma 1, lettera i-bis, della legge reg. n. 16 del 2008 come novellato). Le due tipologie di intervento non sembrano presentare significative differenze: né l’utilizzo del termine «elementi» in luogo di «opere», né l’aggiunta dell’esclusione delle volumetrie «anche interrate», appaiono in grado di segnare una apprezzabile diversità dei rispettivi connotati edilizi. Poiché il Governo lamenta l’illegittima inclusione delle opere in questione tra gli interventi edilizi eseguibili liberamente, senza necessità di titolo abilitativo, occorre verificare se il legislatore regionale, nel precisare l’ambito riservato all’attività edilizia libera, si sia mantenuto nei limiti di quanto gli è consentito. L’art. 6, comma 6, del TUE prevede che le regioni a statuto ordinario possano estendere tale disciplina a «interventi edilizi ulteriori» (lett. a), nonché disciplinare «le modalità di effettuazione dei controlli» (lett. b). Nel definire i limiti del potere così assegnato alle regioni, questa Corte ha escluso «che la disposizione appena citata permetta al legislatore regionale di sovvertire le “definizioni” di “nuova costruzione” recate dall’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001» (sentenza n. 171 del 2012). L’attività demandata alla Regione si inserisce pur sempre nell’ambito derogatorio definito dall’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, attraverso la enucleazione di interventi tipici da sottrarre a permesso di costruire e SCIA (segnalazione certificata di inizio attività). Non è perciò ragionevole ritenere che il legislatore statale abbia reso cedevole l’intera disciplina dei titoli edilizi, spogliandosi del compito, proprio del legislatore dei principi fondamentali della materia, di determinare quali trasformazioni del territorio siano così significative da soggiacere comunque a permesso di costruire. Lo spazio attribuito alla legge regionale si deve quindi sviluppare secondo scelte coerenti con le ragioni giustificatrici che sorreggono, secondo le previsioni dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, le specifiche ipotesi di sottrazione al titolo abilitativo» (sentenza n. 139 del 2013). Il limite assegnato al legislatore regionale dall’art. 6, comma 6, lettera a), del d.P.R. n. 380 del 2001 sta, dunque, nella «possibilità di estendere i casi di attività edilizia libera ad ipotesi non integralmente nuove, ma “ulteriori”, ovvero coerenti e logicamente assimilabili agli interventi di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 6» (così ancora la sentenza n. 139 del 2013). Su queste basi, si deve ritenere che il legislatore regionale ligure, nell’includere nel novero delle attività edilizie “libere” l’installazione di opere di arredo privato, anche di natura pertinenziale, purché non comportanti creazione di nuove volumetrie, non abbia esteso i casi di attività edilizia libera a un’ipotesi integralmente nuova, non coerente e logicamente assimilabile agli interventi già previsti ai commi 1 e 2 dell’art. 6 del TUE. Come si può desumere anche dalla diversa disciplina riservata dallo stesso legislatore regionale alle «opere di sistemazione e di arredo» di natura pertinenziale (art. 17 della legge reg. n. 16 del 2008) assoggettate a DIA “obbligatoria” (ai sensi dell’art. 23 della stessa legge), la tipologia di arredo incluso tra gli interventi non subordinati a titoli abilitativi corrisponde a manufatti che, per le loro caratteristiche di precarietà strutturale e funzionale, sono destinati a soddisfare esigenze contingenti e circoscritte nel tempo, e non sono pertanto idonei a configurare un aumento del volume e della superficie coperta, né ad alterare il prospetto o la sagoma dell’edificio. Si tratta dunque di opere assimilabili a quelle previste all’art. 6, comma 6, del TUE, che alla lettera e) considera gli «elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici». La legge regionale appare anzi più restrittiva, perché precisa (a differenza della legge statale) che tali opere non possono comportare la creazione di volumetria. Sussiste, tuttavia, un profilo rispetto al quale il legislatore regionale ha ecceduto dalla sfera della competenza concorrente assegnata dall’art. 117, terzo comma, Cost. Mentre il citato art. 6, comma 2, lettera e), del TUE, subordina gli «elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici» alla previa comunicazione dell’inizio dei lavori da parte dell’interessato al comune, la previsione regionale impugnata accomuna la disciplina dell’arredo su area pertinenziale e di quello sugli spazi “scoperti” dell’edificio, ma non impone per il primo lo stesso onere formale. Le regioni possono sì estendere la disciplina statale dell’edilizia libera ad interventi “ulteriori” rispetto a quelli previsti dai commi 1 e 2 dell’art. 6 del TUE, ma non anche differenziarne il regime giuridico, dislocando diversamente gli interventi edilizi tra le attività deformalizzate, soggette a cil e cila L’omogeneità funzionale della comunicazione preventiva (asseverata o meno) rispetto alle altre forme di controllo delle costruzioni (permesso di costruire, DIA, SCIA), deve indurre a riconoscere alla norma che la prescrive ‒ al pari di quelle che disciplinano i titoli abilitativi edilizi ‒ la natura di principio fondamentale della materia del «governo del territorio», in quanto ispirata alla tutela di interessi unitari dell’ordinamento e funzionale a garantire un assetto coerente su tutto il territorio nazionale, limitando le differenziazioni delle legislazioni regionali. Essendo precluso al legislatore regionale di discostarsi dalla disciplina statale e di rendere talune categorie di opere totalmente libere da ogni forma di controllo, neppure indiretto mediante denuncia, l’art. 6 della legge reg. Liguria n. 12 del 2015 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo limitatamente ai commi 3, 8, secondo trattino, e 11, terzo trattino.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 8 novembre 2012, n. 1393 - La messa in posa di una recinzione metallica sorretta da pali costituisce attività edilizia libera come tale non soggetta a rilascio di titolo e, a fortiori, non sanzionabile con provvedimento demolitorio.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 25 ottobre 2010, n. 10007 - La recinzione dei sedimi di proprietà senza la realizzazione di opere murarie costituisce, in assenza di specifica norma urbanistica di segno opposto, attività edilizia libera come confermato dall’art. 6 l.r. 16/08. L’art. 6, comma 2, lett. J) l.r. 16/08 contempla tra le opere di manutenzione ordinaria, che il successivo articolo 21 non assoggetta a titolo abilitativo, l’“installazione di recinzioni nel terreno non comportanti l'esecuzione di opere murarie”.

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T.A.R. Liguria, Sez. I, 8 novembre 2012, n. 1393 - L'attività di spargimento di ghiaia su area che ne era precedentemente priva è soggetta a specifico titolo edilizio allorchè appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d'uso (conforme Cons. Stato, Sez. V, 27 aprile 2012, n. 2450).   T.A.R. Liguria, Sez. I, Ord., 110 marzo 2010, n. 97 -  Il mutamento di destinazione d’uso senza opere edilizie (funzionale) è assoggettato dall’art. 23 comma 1 lett. m) della l. r. 16/08 alla denuncia di inizio di attività di talchè tale ipotesi è assoggettata alla disciplina di cui all’art. 43 l.r. 16/08 che prevede la demolizione solo in ipotesi circoscritte e residuali della cui esistenza non è dato conto nel provvedimento impugnato.

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T.A.R. Milano, Sez. II, 12 agosto 2016, n. 1605 -  In caso di ripetizione delle somme versate dal precedente proprietario a titolo di oblazione e contributo di costruzione in relazione ad un condono edilizio poi annullato in sede giurisdizionale la legittimazione all'azione spetta esclusivamente al soggetto che ha effettuato il versamento non dovuto (c.d. solvens/dante causa) e non anche al nuovo proprietario dell'immobile. Infatti il mero trasferimento del bene non legittima di per sè l'acquirente ad attivarsi per la restituzione delle somme versate dal suo dante causa in dipendenza di quel titolo. Ai sensi dell'art. 81 c.p.c. non può ammettersi che un terzo (il nuovo proprietario del bene) faccia valere in giudizio, in nome proprio, un diritto di cui non è titolare. Non vale a trasferire le ragioni di credito dipendenti dal titolo edilizio la clausola del contratto per cui la compravendita immobiliare è stata convenuta "con gli inerenti diritti, azioni, ragioni, accessioni" trattandosi di previsione convenzionale che potrebbe tutt'al più trasferire le azioni inerenti alla cosa, e non già l'azione personale di ripetizione dell'impedito, i cui presupposti sono peraltro maturati dopo la stipulazione del contratto di compravendita. Ove la domanda di restituzione venisse ricondotta entro lo schema dell'art. 2041 c.c. (azione per arricchimento senza causa), difetterebbe la giurisdizione del Giudice amministrativo in quanto difficilmente potrebbe rinvenirsi un collegamento tra una situazione di arricchimento/impoverimento senza causa e l'esercizio di un potere autoritativo, tale da consentire di ricondurre la controversia entro il perimetro della giurisdizione esclusiva sugli atti e provvedimenti delle p.a. in materia di urbanistica ed edilizia (art 133, c. 1, lett. f), c.p.a.) e di oblazione (art. 35, c. 16, L. n. 47/1985).   T.A.R. Liguria, Sez. I, 17 marzo 2015, n. 288 - Atteso che per un altro verso, in ordine al diniego di sanatoria ed alla nuova conseguente sanzione, la sopravvenuta carenza di interesse deriva, analogamente, a fronte dell’obbligo per la p.a. resistente di previa valutazione delle due concorrenti istanze presentate da parte odierna ricorrente successivamente all’adozione degli atti impugnati ed alle impugnazioni stesse, sia in termini di integrazione della domanda di sanatoria (di cui alla documentazione prodotta in giudizio sub doc n. 17, istanza del 20\12\2013), sia in termini di esercizio della facoltà di cui all’art. 10 comma 2 l.r. 58\2009 (cfr. da ultimo doc n. 16 di parte ricorrente r.g. 1059\2012); - considerato che sotto entrambi i profili la proposizione delle istanze predette fa sorgere un obbligo di provvedere, sia in tema di sanatoria a fronte della possibile novità degli elementi prodotti, sia in tema di possibile avvio dell’iter di modifica al piano di bacino; - atteso che, a quest’ultimo proposito, a fronte di una documentata istanza da parte di un soggetto direttamente inciso dalla disciplina in questione, la palese natura discrezionale del potere comunale, desumibile dal testo normativo invocato (“Istanze di modifiche od integrazioni ai Piani vigenti possono, altresì, essere proposte alla Provincia competente dai comuni interessati sulla base di adeguata documentazione tecnica”) non esclude – anzi lo conferma – l’obbligo di presa in esame e di valutazione, salvo l’esito che potrà all’evidenza anche essere negativo, seppur a seguito della necessaria attività istruttoria e valutativa.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 13 novembre 2014, n. 1616 - In linea generale, va ricordato che la prova della realizzazione delle opere abusive entro la data prescritta grava sull'interessato che presenta la domanda di condono, il quale può avvalersi della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ma, a fronte di elementi acquisiti dall'Amministrazione idonei ad evidenziare una diversa epoca di realizzazione dell'abuso, l'istante è gravato dall'onere di provare, attraverso dati ed elementi certi, l'effettiva realizzazione dei lavori entro il termine previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio, non potendo limitarsi a contestare i dati in possesso dell'amministrazione senza fornire alcun elemento di prova a corredo della propria tesi (cfr. ad es. TAR Lecce n. 181\2014, T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 4750\2013). Più in generale, l'onere della prova dell'ultimazione dei lavori grava sul richiedente la sanatoria, in quanto, mentre l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sulla sanatoria, colui che lo richiede può, di regola, procurarsi la documentazione da cui si possa desumere che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data prevista (Cons. di St., sez. VI, 5 agosto 2013, 4075); pertanto in materia edilizia, se è pur vero che la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà concernente l'intervenuta ultimazione delle opere entro la data utile invocata non ha alcun valore privilegiato, rappresentando solo un principio di prova potenzialmente idoneo e sufficiente a dimostrare la data di ultimazione delle opere e non preclude alla p.a. la possibilità di raccogliere nel corso del procedimento elementi a contrario e pervenire a risultanze diverse, non può farsi ricadere su quest'ultima l'onere di fornire la prova dell'ultimazione dei lavori in data successiva a quella dichiarata dall'interessato (cfr. ad es. T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. III, 24 maggio 2013, 1166). Ora, nel caso all'esame, a fronte della sussistenza delle dichiarazioni sostitutive presentate, valutate e quindi accolte da parte degli uffici comunali, nessun concreto e rilevante elemento in senso contrario risulta fornito; né quindi poteva pretendersi che l’amministrazione cercasse altrimenti prove contrarie.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 4 novembre 2014, n. 1531 - La giurisprudenza di primo e secondo grado è infatti concorde nel ritenere che “La specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria c.d. straordinaria (o condono), il parere della Commissione edilizia non obbligatorio, ma, tutt'al più, facoltativo, in quelle specifiche ipotesi in cui l'amministrazione ritenga discrezionalmente di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi. In assenza dei predetti casi di acquisizione facoltativa del parere dell'organo collegiale, il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei (pur numerosi) presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore” (Tar Pi. II 11\4\2012 n.438; CdS IV 2\11\2009 n.6784; Tar Liguria, I 27\1\2009 n.120).     T.A.R. Liguria, Sez. I, 21 ottobre 2014, n. 1457 - Rispetto alla sussistenza ed applicabilità del vincolo, assume rilievo dirimente quanto pacificamente ricavabile dalla stessa istanza di condono, in cui risulta confessoriamente indicata l’epoca di realizzazione degli abusi in oggetto rispettivamente in data 31\10\1987 (cfr. doc n. 6 di parte resistente) e 31\12\1990 (cfr. doc n. 5 di parte resistente), quindi in epoca successiva all’apposizione del vincolo che nella stessa prospettazione di parte ricorrente risale al 1985. In ogni caso, la palese infondatezza delle contestazioni emerge dal principio pacifico a mente del quale in tema di condono rileva l'esistenza del vincolo al momento in cui va valutata l'istanza di sanatoria, a prescindere dall'epoca della di lui introduzione e della realizzazione dell'opera.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 23 settembre 2014, n. 1359 - Sono illegittimi i dinieghi impugnati adottati trascorsi quattro anni (d. 20.09.2008) dalla presentazione dell’istanza di condono (d.10.12.2004). Il procedimento di condono che ha preso avvio dal deposito della domanda di condono ha accusato ingiustificati stalli: solo il 26.05.2007 la ricorrente ha ricevuto la comunicazione dei motivi ostativi mercé il richiamo del parere negativo espresso dalla Commissione edilizia che – a sua volta – ha operato stentoreo riferimento al parere del legale di fiducia, non allegato ai provvedimenti. Alle controdeduzioni presentate “al buio” dalla ricorrente il 5.06.2007, il Comune, senza prenderle specificamente in esame, rispondeva ancora una volta genericamente opponendo i dinieghi impugnati. Costituisce nozione di scaturigine dottrinale, fatta propria dalla giurisprudenza amministrativa consolidata, che il procedimento amministrativo è la forma dell’atto: la violazione delle norme che disciplinano il suo svolgimento rifluisce direttamente sul provvedimento conclusivo. Ancorché la ricorrente non abbia dedotto nell’atto introduttivo il motivo di censura sul silenzio assenso per il decorso del biennio dalla presentazione della domanda di condono, l’ingiustificato ritardo nella conclusione del procedimento, oltre a violare l’art. 2 bis l. 241/90, pregiudica i principi di economicità e trasparenza dell’azione amministrativa, presidiati dagli artt. 1 e 1 bis l. 241/90 nella loro portata precettiva di norme attuative dell’art. 97 cost. Aggiungasi che è stato violato nella sostanza il principio del contraddittorio: la ricorrente, oltre a non essere stata messa in grado di conoscere le ragioni che hanno giustificato il diniego, fondato su parere del legale di fiducia del Comune mai resole formalmente ostensibile, non ha nemmeno visto esaminate funditus le puntuali osservazioni comunicate all’amministrazione in fase istruttoria.   Cons. Stato, Sez. IV, 25 novembre 2013, n. 5598 - L'articolo 40, comma 6, della L. n. 47/1985 prevede espressamente che "Nella ipotesi in cui l'immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al capo IV della presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante da procedure esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi giorni dall'atto di trasferimento dell'immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all'entrata in vigore della presente legge". Il Consiglio di Stato con la pronuncia n. 5598/2013 ha chiarito che il termine predetto va interpretato in modo costituzionalmente orientato, nel senso che esso può decorrere solo nel caso in cui in cui sia immediatamente e inequivocamente percepibile l'esistenza dell'illecito edilizio. Detto termine, nel caso in cui l’abuso non sia percepibile all’atto del trasferimento, non può decorrere dalla data dell’atto di trasferimento stesso, ma solo dal momento dell’effettiva scoperta e conoscenza dell’opera abusiva.   Disciplina regionale (L.R. Liguria 29 marzo 2004, n. 5)  Corte Cost., 11 ottobre 2012, n. 225 - Dichiara illegittimità costituzionale degli articoli 3, comma 3, e 4, comma 1, quest'ultimo limitatamente alle parole della legge della Regione Liguria 29 marzo 2004, n. 5. --  Il T.A.R. Liguria ha sollevato (ordinanza 17 febbraio 2011, n. 330) questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 3, e 4, comma 1 (limitatamente alle parole

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