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-- DISTANZE FRA FABBRICATI -- T.A.R. Liguria, Sez. I, 28 novembre 2018, n. 933 - L’articolo 9 del DM 2 aprile 1968, n. 1444, che disciplina i limiti di distanza tra i fabbricati, dispone: “Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue: 1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale; 2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; 3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12. Le distanze minime tra fabbricati - tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti) - debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di: ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7; ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15; ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15. Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche.” L’unità immobiliare e la veranda dei ricorrenti rispettano la distanza minima di 10 metri dagli edifici antistanti prevista dall’articolo 9, primo comma, lettera b), come comprovato dalla tavola integrativa depositata in fase procedimentale. La veranda si colloca però a distanza inferiore ai 5 metri dal ciglio stradale e pertanto non rispetta i parametri imposti dal secondo comma del medesimo articolo 9. Le maggiori distanze ivi previste per i fabbricati tra i quali si interpongono strade non trovano peraltro applicazione all’immobile in questione, localizzato in zona urbanistica B6. Il collegio aderisce sul punto all’orientamento giurisprudenziale che ritiene il secondo comma ed il primo periodo del terzo comma dell’articolo 9 sopra citato applicabili ai soli edifici ubicati in zona urbanistica “C”. (TAR Liguria, sez. I, 17 settembre 2015, n. 743; TAR Veneto, sez. II, 20 marzo 2014, n. 364; TAR Trentino Alto Adige, Bolzano, 7 marzo 2018, n. 78). Detta interpretazione, oltre che basata sul tenore letterale della normativa richiamata, trae fondamento da una lettura logico-sistematica della disciplina, che regola in modo differenziato la pianificazione urbanistica a seconda del diverso stato di urbanizzazione delle aree, differenziando le prescrizioni a seconda che l’edificazione venga effettuata in aree in gran parte già edificate e urbanizzate, in zone di espansione o di nuova edificazione.   Corte Cost., 24 febbraio 2017, n. 41 - Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la disciplina delle distanze fra costruzioni ha la sua collocazione anzitutto nella sezione VI del Capo II del Titolo II del Libro III del codice civile, intitolata appunto “Delle distanze nelle costruzioni, piantagioni e scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra fondi”. «Tale disciplina, ed in particolare quella degli articoli 873 e 875 che viene qui in più specifico rilievo, attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi. […] Non si può pertanto dubitare che la disciplina delle distanze, per quanto concerne i rapporti suindicati, rientri nella materia dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello Stato» (sentenza n. 232 del 2005). Nondimeno, si è altresì sottolineato, che quando i fabbricati insistono su di un territorio che può avere, rispetto ad altri – per ragioni naturali e storiche – specifiche caratteristiche, «la disciplina che li riguarda – e in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso – esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici», la cui cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni perché attratta all’ambito di competenza concorrente del governo del territorio (si veda sempre la sentenza n. 232 del 2005). In questa cornice si è dunque affermato che «alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo il governo del territorio che ne detta anche le modalità di esercizio» (sentenza n. 6 del 2013; nello stesso senso, da ultimo, anche le sentenze n. 231, n. 189, n. 185 e n. 178 del 2016). 4.2.– Nel delimitare i rispettivi ambiti di competenza statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio» questa Corte ha individuato il punto di equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, più volte ritenuto dotato di particolare «efficacia precettiva e inderogabile» (sentenza n. 185 del 2016, ma anche sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005), in quanto richiamato dall’art. 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica), introdotto dall’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150). Pertanto, è stata giudicata legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche» (ex plurimis, sentenza n. 231 del 2016). In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite «se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 134 del 2014; analogamente sentenze n. 178, n. 185, n. 189, n. 231 del 2016), poiché «la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati» (sentenza n. 114 del 2012; nello stesso senso, sentenza n. 232 del 2005). 4.3.– I medesimi principi sono stati ribaditi anche dopo l’introduzione dell’art. 2-bis del TUE, da parte dell’art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98. La disposizione, infatti, ha sostanzialmente recepito l’orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 185 del 2016; nello stesso senso, ex plurimis, sentenza n. 189 del 2016). 4.4.– La deroga alla disciplina delle distanze realizzata dagli strumenti urbanistici deve, in conclusione, ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario (art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968). 5.– Alla luce delle considerazioni svolte, deve ritenersi coerente, rispetto alle indicazioni interpretative offerte dalla Corte e ribadite dal disposto di cui all’art 2-bis del TUE, il riferimento che la norma impugnata reca ai piani urbanistici attuativi (PUA), assimilabili ai piani particolareggiati o di lottizzazione e dunque riconducibili a quella tipologia di atti menzionati nell’art. 9, ultimo comma del d.m. n. 1444 del 1968, più volte richiamato, cui va riconosciuta la possibilità di derogare al regime delle distanze. D’altro canto la stessa giurisprudenza di questa Corte ha stabilito che la deroga alle distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione dettagliata e definita degli interventi (sentenza n. 6 del 2013). Ne consegue che devono ritenersi ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in esame, dall’art 2-bis del TUE, in linea con l’interpretazione nel tempo tracciata da questa Corte (ex multis, sentenze n. 231, n. 189, n. 185, n. 178 del 2016 e n. 134 del 2014).     Corte Cost., 3 novembre 2016, n. 231 - Il Governo ritiene ancora che le modifiche apportate dal sesto comma dell’art. 6 della legge impugnata all’art. 18, comma l, della legge regionale n. 16 del 2008, recante la disciplina delle distanze da osservare negli interventi sul patrimonio edilizio esistente e di nuova costruzione, contrastino con l’art. 2-bis del TUE, in quanto la disciplina introdotta dalla Regione Liguria sarebbe destinata, non a soddisfare esigenze di carattere urbanistico, bensì a consentire interventi edilizi puntuali, in deroga alla normativa statale in materia di distanze, e invaderebbe così la sfera di competenza legislativa esclusiva statale in materia di «ordinamento civile» (di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l, Cost.). La questione è fondata. Secondo la giurisprudenza di questa Corte sul riparto di competenze in tema di distanze legali, «la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo − il governo del territorio − che ne detta anche le modalità di esercizio» (sentenza n. 6 del 2013; nello stesso senso, sentenze n. 134 del 2014 e n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011). Si è affermato di conseguenza che: «Nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza − statale in materia di “ordinamento civile” e concorrente in materia di “governo del territorio” −, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile (sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011). Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”. In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio (sentenza n. 6 del 2013)» (sentenza n. 134 del 2014). Queste conclusioni meritano di essere ribadite anche alla luce dell’introduzione − ad opera dall’art. 30, comma 1, 0a), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98 − dell’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001. La disposizione recepisce la giurisprudenza di questa Corte, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le regioni e le province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità di deroghe solo a condizione che esse siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 134 del 2014; da ultimo sentenze 185 e 178 del 2016). La disposizione regionale impugnata, non affidando l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici» e non essendo funzionale ad un «assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio», riferisce la possibilità di deroga a qualsiasi ipotesi di intervento, quindi anche su singoli edifici, con la conseguenza che essa risulta assunta al di fuori dell’ambito della competenza regionale concorrente in materia di «governo del territorio», in violazione del limite dell’«ordinamento civile» assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Va ancora precisato che, se è vero che ‒ come sembra opinare il Governo ‒ le stesse ragioni di contrasto con il riparto di competenze costituzionali potevano essere riferite al testo originario della norma, in quanto non conseguono alla sostituzione delle parole «ivi compresi» con la parola «nonché» (anche gli «interventi sul patrimonio edilizio esistente» possono infatti esaurirsi in un intervento mirato), la mancata impugnazione a suo tempo, da parte dello Stato, della disposizione originaria non rileva ai fini del presente giudizio, poiché la disposizione censurata – che peraltro presenta un contenuto di novità rispetto alla disposizione modificata, anche per l’aggiunta della previsione che il recupero del sottotetto non costituisce creazione di un nuovo piano – ha comunque l’effetto di reiterare la lesione da cui deriva l’interesse a ricorrere dello Stato. L’omessa impugnazione da parte di quest’ultimo di precedenti norme regionali, analoghe a quelle oggetto di ricorso, non ha rilievo, dato che l’istituto dell’acquiescenza non è applicabile nel giudizio di legittimità costituzionale in via principale (ex plurimis, sentenze n. 215 e n. 124 del 2015, n. 139 del 2013, n. 71 del 2012 e n. 187 del 2011).   Cons. Stato, Sez. IV, 4 agosto 2016, n. 3522 - Con l’ultimo motivo di entrambi gli appelli, le parti istanti censurano nel merito l’interpretazione data dal primo giudice del disposto dell’art. 9, d.m. nr. 1444/1968, facendone rilevare l’inapplicabilità alla situazione che qui occupa, laddove i due edifici non avevano pareti finestrate direttamente frontistanti, vi era diversità di quote fra le aperture, e comunque era da escludersi la creazione di qualsivoglia intercapedine nociva o pericolosa per la salubrità pubblica. Anche questi motivi vanno respinti, ponendosi essi in frontale contrasto con tutti i principali approdi della giurisprudenza in subiecta materia. In particolare, proprio con riferimento alle disposizioni contenute nell’art. 9 in tema di pareti finestrate, è stato osservato: a) che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29 febbraio 2016, nr. 856; id., 11 giugno 2015, nr. 2861; id., 22 gennaio 2013, nr. 354; id., 20 luglio 2011, nr. 4374); b) che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22 novembre 2013, nr. 5557; id., 9 ottobre 2012, nr. 5253); c) che la norma in questione, in ragione della sua ratio di tutela della salubrità, è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti (cfr. Cons. Stato, 27 ottobre 2011, nr. 5759); d) che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile, donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di pregiudizio alla salubrità degli immobili (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18 dicembre 2012, nr. 6489; id., sez. IV, 9 maggio 2011, nr. 2749; id., 5 dicembre 2005, nr. 6909).   Cons. Stato, Sez. IV, 3 agosto 2016, n. 3510 - Il limite di 10 m. di distanza, di cui al già citato art. 9, primo comma n. 2. D.M. n. 1444/1968 - da computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non anche alle sole parti che si fronteggiano (Cons. Stato, sez. IV, 11 giugno 2015 n. 2661) - presuppone la presenza di due “pareti” che si fronteggiano, delle quali almeno una finestrata (Cons. stato, sez. IV, 26 novembre 2015 n. 5365; id., 19 giugno 2006 n. 3614). Più precisamente, la giurisprudenza ha affermato che il limite predetto presuppone “pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende quelle su cui si aprono finestre cd. lucifere” (Cons. Stato, sez. IV, 4 settembre 2013 n. 4451 e 22 gennaio 2013 n. 844; in senso conforme, Cass. civ., sez. II, 30 aprile 2012 n. 6604; nel senso che le aperture di tipo velux, come quella indicata nel progetto impugnato, non sono qualificabili come vedute ma come luci, Cons. Stato, sez. IV, 5 ottobre 2015, n. 4628). Orbene, nel caso di specie non ricorre l’ipotesi di due pareti di edifici, delle quali almeno una finestrata, poiché – come è pacifico tra le parti (v. memoria Pittaluga-Pugliese, del 7 ottobre 2014, pag. 8) e come emerge dagli atti di causa - nel caso di specie il “confronto” verte tra una parete finestrata dell’edificio Rojch ed un muro di contenimento di proprietà degli appellati. Come si è detto, argomentando anche dalla giurisprudenza innanzi citata, l’applicazione della distanza di 10 metri, di cui all’art. 9, primo comma, n. 2, D.M. n. 1444 cit. presuppone pareti di edifici, delle quali almeno una finestrata con “vedute”, di modo che non può essere ampliata la portata della norma fino al punto di comprendere manufatti (quali un muraglione) che non possono essere ragionevolmente ricondotti alla definizione di “parete di edificio”; e ciò a maggior ragione in presenza di una riconosciuta imperatività della norma, tale da imporsi anche a disposizioni di diverso e contrastante contenuto, eventualmente adottate in sede di pianificazione urbanistica. Alla luce di quanto esposto, non può essere condivisa la sentenza impugnata, laddove essa afferma che “anche il muro di contenimento costituisce edificio rilevante ai fini del rispetto delle distanze di cui al D.M. n. 1444/1968”, poiché esso è “palesemente in grado di dar vita ad intercapedini contrarie alla finalità della norma”. Per un verso, tale affermazione non risulta validata dal tenore letterale della norma; per altro verso, occorre osservare che l’art. 9 non intende evitare la realizzazione di qualsivoglia tipo di intercapedine, altrimenti non avrebbe senso il testuale riferimento alle pareti finestrate, ma di quelle intercapedini che si pongono in contrasto con “imprescindibili esigenze igienico-sanitarie” (Cons. St., sez. IV, n. 4451/2013 cit.). Per tutte le ragioni esposte, il secondo motivo proposto è fondato e, pertanto, l’appello deve essere accolto, con assorbimento degli ulteriori motivi proposti e conseguente riforma della sentenza impugnata.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 10 febbraio 2016, n. 126 - Parte ricorrente denuncia l’illegittimità del titolo edilizio impugnato, in quanto non sussisterebbe la distanza di cui all’art. 9 del d.m. 2.4.1968, n. 1444 tra una parete della costruzione contestata e la vicina finestra dell’immobile edificato sul fondo accatastato al mappale 225; […] Le parti resistente e controinteressata non contestano espressamente la validità del rilievo, ma eccepiscono l’inammissibilità del motivo, in quanto proposto da un soggetto non titolare del necessario interesse alla sua deduzione e la sua infondatezza nel merito, posto che la frontistanza riguarda una porta-finestra e non già una finestra. Sull’ammissibilità della questione il collegio osserva di essersi già pronunciato altra volta in senso contrario alla tesi che sottende l’eccezione (sent. 12.3.2013, n. 476, paragrafo 3.12), trattandosi di una materia funzionale alla miglior tutela della salute pubblica (cons. Stato 2002, n. 3929, 2003, n, 871, tar Lombardia, Milano, 2014, n. 1597 e tar Piemonte, 2014, n. 94) e ad evitare le dannose intercapedini che possono formarsi quando gli edifici delle aree non centrali o storiche sono posti a distanza esigua l’uno dall’altro. La natura pubblicistica dell’interesse così protetto fa sì che chiunque sia in rapporto di contiguità con il bene ha titolo a far valere in giudizio l’illegittimità in questione.   In fatto l’apertura che risulta nel fondo vicino a quello oggetto di intervento consente un’ampia veduta sulla proprietà contigua, sì che alla specie possono applicarsi i principi giurisprudenziali condivisi (cass., 13.8.2012, n. 17950) che consentono l’equiparazione in tutto della bucatura ad una finestra. T.A.R. Liguria, Sez. I, 16 gennaio 2015, n. 84 - Il controinteressato oppone alla censura la natura di luce che l’apertura avrebbe nell’ambito della facciata di che si tratta, ma le immagini prodotte rappresentano una differente realtà, attesa la lieve differenza nell’altezza dal pavimento tra la veduta oggetto della ricordata d.i.a. e quella che caratterizza la nuova bucatura aperta sopra il fondo della ricorrente. Consegue da ciò che, in assenza di prove circa la natura di semplice luce della nuova finestra, questa va dichiarata come realizzata in violazione dell’art. 905 cc, posto che essa consente l’affaccio sul fondo di cui l’interessata è comproprietaria.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 18 novembre 2014, n. 1630 - In tale ottica, con particolare riferimento alla materia in questione, va altresì precisato (cfr. ad es. Tar Campania n. 23762\2010 e Tar Liguria 476\2013, Consiglio di Stato n. 3929\2002 e 5759\2011) che in tema di proprietà, l'obbligo di rispettare le distanze legali previste dagli strumenti urbanistici per le costruzioni legittime non soltanto a tutela dei proprietari frontisti ovvero della relativa riservatezza, ma anche per finalità di pubblico interesse, dovendo così essere osservato sia in sede di valutazione di abusi soggetti ad istanza di sanatoria sia rispetto a nuove edificazioni, in ordine alle quali i soggetti caratterizzati dalla vicinitas hanno il diretto concreto ed attuale interesse affinché la relativa realizzazione avvenga nel rispetto delle norme dettate a tutela (anche) di interessi fondamentali e collettivi. In materia, inoltre, si richiamano i precedenti secondo cui la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (cfr. ad es. Consiglio Stato, Sez. IV, 5 dicembre 2005, n. 6909); quindi nella specie si conferma la rilevanza dell'edifico posto in posizione latistante. In proposito, ai fini del computo delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene (cfr. ad es. Consiglio di Stato, Sez. V, 19 marzo 1996, n. 268). In dettaglio, va quindi ribadito che nel calcolo delle distanze tra costruzioni, devono prendersi in considerazione le sporgenze costituenti per il loro carattere strutturale e funzionale veri e propri aggetti implicanti perciò un ampliamento dell'edificio in superficie e volume, come appunto i balconi formati da solette aggettanti anche se scoperti di apprezzabile profondità, ampiezza e consistenza (Tar Puglia n. 1235\2012). Analogamente, gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche ad estendere ed ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo (Consiglio Stato , Sez. IV, 5 dicembre 2005 , n. 6909). Pertanto, sulla scorta di tali indicazioni non può certo escludersi dai manufatti rilevanti a fini di distanze, in quanto palesemente in grado di dar vita a intercapedini contrarie alla finalità della norma, l’innalzamento di corpi di fabbrica latistanti che, creando un nuovo volume fisico rispetto al pregresso, danno vita ad un nuovo ingombro soggetto anch’esso alla verifica del rispetto delle distanze. Incidentalmente va evidenziato come nella specie non possa assumere rilievo la nuova definizione normativa di ristrutturazione di cui all'art. 30 d.l. 69\2013: sia ratione temporis, in quanto all'epoca del rilascio degli assensi in contestazione vigeva altra normativa; sia in quanto nella specie non viene in rilievo una mera modifica della sagoma, trattandosi di nuovo volume, sia - soprattutto - per la rilevanza ex se ed autonoma del medesimo nuovo volume rispetto ai principi in tema di distanze. Analoghe considerazioni vanno svolte per la parte innovativa di cui al predetto art. 30 in tema di distanze: non applicato né applicabile alla fattispecie ratione temporis, sia per l'assenza della necessaria legislazione regionale espressamente derogatoria sul punto, cui rinvia la sopravvenuta norma statale.   Cons. Stato, Sez. IV, 4 settembre 2013, n. 4451 - "Un preciso orientamento sia della Cassazione (Cass. Sez. Civ., Sez. II 30 aprile 2012, n. 6604), sia di questo Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. IV, 22 gennaio 2013, n. 844) - dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi - ha avuto modo di affermare come la regola del rispetto della distanza di dieci metri, di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, si riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere".   T.A.R. Liguria, Sez. I, 12 luglio 2013, n. 1067 - "La nuova costruzione, al contrario, in qualsiasi zona sia realizzata, fosse anche in zona A, comporta il rispetto della distanza di cui all’art. 9 d.m. 1444/1968 di dieci metri dalle pareti finestrate degli edifici fronti stanti (C.S.V 19 marzo 1999 n. 280). Ciò posto nel caso di specie la ricorrente ha chiesto un permesso di costruire per il recupero del sottotetto che ha comportato la sopraelevazione della linea di gronda di circa 70 centimetri, onde la riconducibilità dell’intervento alla nuova costruzione. Peraltro l’edificio posto a levante di quello della ricorrente presenta, contrariamente a quanto asserito in ricorso, finestre nella parete frontistante l’immobile della ricorrente (foto n. 5 prod. n. 10 comune di Finale Ligure 4 aprile 2012). A questo punto è irrilevante stabilire se il progetto della ricorrente prevedesse o meno finestre o luci e così via. Infatti, una volta accertato che l’edificio frontistante presentava una parete finestrata la sopraelevazione doveva essere rispettosa della distanza di dieci metri".   Corte Cost., 23 gennaio 2013, n. 6 - La regolazione delle distanze tra i fabbricati deve essere inquadrata nella materia «ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato (Corte Cost. sentenze n. 114 del 2012, n. 173 del 2011, n. 232 del 2005). Infatti, tale disciplina attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi e ha la sua collocazione innanzitutto nel codice civile. La regolazione delle distanze è poi precisata in ulteriori interventi normativi, tra cui rileva, in particolare, il d.m. n. 1444 del 1968. Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ha altresì chiarito che, poiché «i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri -- per ragioni naturali e storiche -- specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda -- ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso -- esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici» (sentenza n. 232 del 2005), la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di «governo del territorio», ex art. 117, terzo comma, Cost.. Per queste ragioni, in linea di principio la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo -- il governo del territorio -- che ne detta anche le modalità di esercizio. Pertanto, la legislazione regionale che interviene in tale ambito è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, rimettendo l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 232 del 2005).   Il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in materia di «governo del territorio», come identificato dalla Corte costituzionale, trova una sintesi normativa nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di «efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011; sentenza n. 232 del 2005). Quest’ultima disposizione consente che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche». Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.  La norma regionale censurata infrange i principi sopra ricordati, in quanto consente espressamente ai Comuni di derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite dall’art. 9, ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, che, come si è detto, esige che le deroghe siano inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia dell’interesse pubblico relativo al governo del territorio. La disposizione regionale impugnata, al contrario, autorizza i Comuni ad «individuare gli edifici» dispensati dal rispetto delle distanze minime. La deroga non risulta, dunque, ancorata all’esigenza di realizzare la conformazione omogenea dell’assetto urbanistico di una determinata zona, ma può riguardare singole costruzioni, anche individualmente considerate. La procedura delineata dal legislatore regionale non è dunque conforme ai principi sopra enunciati, né il vizio può ritenersi insussistente in ragione dell’art. 2, quarto comma, della legge regionale impugnata, che intende conferire a tale procedura «efficacia di piano particolareggiato», ex lege. Anzi, attraverso tale autoqualificazione, il legislatore regionale pretende di attribuire gli effetti tipici degli strumenti urbanistici a un procedimento che non ne rispecchia la sostanza e le finalità. L’attribuzione, per via legislativa, della qualifica formale di piano particolareggiato ad una procedura che del piano urbanistico non ha le caratteristiche, perché permette di derogare caso per caso alle regole sulle distanze tra edifici, non offre alcuna garanzia che la legge regionale persegua quelle finalità pubbliche di governo del territorio che, sole, possono giustificare l’esercizio di una competenza legislativa regionale in un ambito strettamente connesso alla competenza statale in materia di «ordinamento civile».     T.A.R. Liguria, Sez. I, 14 dicembre 2012, n. 1658 - La sopraelevazione del fabbricato oltre il profilo superiore del muro di confine con la proprietà viciniore, distando solo m. 3,50-3,70 dalla parete dell’edificio frontistante ove è presente una finestra, viola il limite di distanza di dieci metri tra i fabbricati imposto dall’art. 9 del D.M. 2.4.1968, n. 1444 (distanza che è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata, essendo sufficiente per l'applicazione di tale distanza che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta – Cass., VI, 27.6.2012, n. 10753). Né rileva la circostanza che si versi in zona “A” di P.R.G., posto che il limite di distanza corrispondente a quella tra i volumi edificati preesistenti riguarda soltanto gli interventi di risanamento conservativo e di ristrutturazione, mentre nel caso di specie si tratta -- come detto -- di nuova costruzione (cfr. Cons. di St., VI, 27.1.2003, n. 419; id., V, 19.3.1999, n. 280, per i quali alla realizzazione di nuovi edifici in zona omogenea A si applica la distanza minima assoluta di dieci metri di cui all’art. 9 comma 1 n. 2 D.M. 2.4.1968).   V. anche alle voci "Edilizia - Giurisprudenza - Sottotetti", "Edilizia - Giurisprudenza - Tipologie di interventi urbanistico edilizi - Ristrutturazione edilizia" e "Edilizia - Giurisprudenza - Tipologie di interventi urbanistico edilizi - Nuova costruzione".   -- DISTANZE DAL CONFINE STRADALE --   T.A.R. Liguria, Sez. I, 5 maggio 2016, n. 430 - La contestazione deriva dall’art. 64 delle NA del PUC vigente che impone nel distretto in questione una distanza minima di metri quattro tra le serre e la viabilità: la previsione non è ulteriormente dettagliata, sì che essa va intesa nel senso che il precetto si riferisce alle vie pubbliche, mentre è pacifico per averlo ammesso il comune che la via non è inserita nell’elenco delle strade comunali, né che il bene sia stato destinato al pubblico transito per destinazione c.d. ex agris collatis (cass. 5.7.2013, n. 16864).     T.A.R. Liguria, Sez. I, 30 settembre 2014, n. 1404 - Ai fini della positiva identificabilità del centro abitato è necessario un apposito provvedimento amministrativo di delimitazione che non può essere supplito dal riscontro naturalistico, peraltro ampiamente opinabile, delle caratteristiche previste dal codice della strada. Né in presenza di una presa di posizione dell’ente deputato alla tutela del vincolo possono assumere rilevanza le precedenti determinazioni assunte dall’amministrazione comunale.     T.A.R. Liguria, Sez. I, 5 luglio 2010, n. 5565 - L’art. 1 del D. Lgs. 16.12.1992, n. 495 (recante il regolamento di esecuzione e di attuazione del codice della strada), prevede che “le distanze dal confine stradale all'interno dei centri abitati, da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle demolizioni integrali e conseguenti ricostruzioni o negli ampliamenti fronteggianti le strade, non possono essere inferiori a: a) 30 m per le strade di tipo A […]”. Il termine “fronteggianti” non si riferisce ai soli manufatti “in elevazione” rispetto al livello della strada, bensì a tutte le costruzioni che si trovino, in proiezione orizzontale, di fronte al confine stradale, e siano dunque finitime ad esso.   Per costante giurisprudenza, il divieto di costruire ad una certa distanza dalla sede stradale non deve essere inteso restrittivamente, e cioè come previsto al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali emergenti dal suolo e suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico ed alla incolumità delle persone, ma è connesso alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, dal concessionario, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi con la presenza di costruzioni, sicché le distanze previste dalla normativa vanno rispettate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale (Cass., II, 1.6.1995, n. 6118; Cons. di St., IV, 18.10.2002, n. 5716; id., 25.9.2002, n. 4927; T.A.R. Campania-Salerno, II, 9.4.2009, n. 1383). Del resto, già la normativa precedente (art. 4 del D.M. 1.4.1968) -- rispetto alla quale quella di cui all’art. 1 del D. Lgs. 16.12.1992, n. 495 si pone in linea di coerente continuità --stabiliva che alle distanze da osservarsi nella edificazione a partire dal ciglio della strada e da misurarsi in proiezione orizzontale, “va aggiunta la larghezza dovuta alla proiezione di eventuali scarpate”, con ciò confermando che, al fine di escludere l’applicazione della fascia di rispetto stradale, non rileva che l’autostrada corra su di un rilevato posto ad una quota superiore rispetto a quella del terreno oggetto della progettata edificazione. L’art. 9 della legge 24.3.1989, n. 122 (cd. Legge Tognoli), nella parte in cui consente di derogare agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, costituisce norma eccezionale, non applicabile -- ex art. 14 disp. prel. c.c. -- oltre i casi in essa specificamente considerati (i divieti contenuti negli strumenti urbanistici e nei regolamenti edilizi).

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D.P.R. 15 novembre 2012, n. 236 recante «Regolamento recante disciplina delle attività del Ministero della difesa in materia di lavori, servizi e forniture, a norma dell'articolo 196 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163» (G.U. n. 5 del 7-1-2013) con il quale è disciplinata la materia dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture di cui al d.lgs. 12 aprile 2006,  n. 163,  e  successive  modificazioni,  recante «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE», limitatamente ai contratti e alle procedure in economia relativi a  lavori,  servizi  e  forniture, di competenza del Ministero della difesa di  cui  sono  parte  organismi della Difesa, diversi  da  quelli  di  cui  all'art.  2  del  d.lgs. 15 novembre 2011, n. 208 ossia diversi da quelli concernenti: a) forniture di materiale militare e loro parti, di componenti  o di sottoassiemi; b) forniture di materiale sensibile e loro parti, di componenti o di sottoassiemi; c)  lavori,  forniture e servizi direttamente correlati al materiale di cui alla lettera a), per ognuno e per tutti gli elementi del suo ciclo di vita; d)  lavori,  forniture e servizi direttamente correlati al materiale di cui alla lettera b), per ognuno e per tutti gli elementi del suo ciclo di vita; e) lavori e servizi per fini specificatamente militari; f) lavori e servizi sensibili.

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Si segnala l’art. 4 del d.l. 29 dicembre 2016, n. 243 recante «Interventi urgenti per la coesione sociale e territoriale, con particolare riferimento a situazioni critiche in alcune aree del Mezzogiorno» (G.U. n.304 del 30.12.2016) convertita con modificazioni in l. 27 febbraio 2017, n. 243 (G.U. n. 49 del 28.2.2017) che istituisce l’Agenzia per  la  somministrazione  del  lavoro  in  porto  e  per  la riqualificazione professionale (transhipment)   Ecco il testo dell’articolo 4   1. Al fine di sostenere l'occupazione, di accompagnare i processi di riconversione industriale delle infrastrutture portuali e di evitare grave pregiudizio all'operativita' e all'efficienza portuali, nei porti nei quali almeno l'80 per cento della movimentazione di merci containerizzate avviene o sia avvenuta negli ultimi cinque anni in modalita' transhipment e persistano da almeno cinque anni stati di crisi aziendale o cessazioni delle attivita' terminalistiche, in via eccezionale e temporanea, per un periodo massimo non superiore a trentasei mesi, a decorrere dal 1° gennaio 2017 e' istituita dalla Autorita' di Sistema portuale, d'intesa con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con delibera del Comitato di gestione o del Comitato portuale laddove eserciti in prorogatio le sue funzioni, una Agenzia per la somministrazione del lavoro in porto e per la riqualificazione professionale, nella quale confluiscono i lavoratori in esubero delle imprese che operano ai sensi dell'articolo 18 della legge 28 gennaio 1994, n. 84, autorizzate alla movimentazione dei container che, alla data del 27 luglio 2016, usufruivano di regimi di sostegno al reddito nelle forme degli ammortizzatori sociali. 2. L'Agenzia e' promossa e partecipata, nel periodo di cui al comma 1, dall'Autorita' di Sistema portuale competente, in deroga all'articolo 6, comma 11, della legge 28 gennaio 1994, n. 84, e secondo le norme recate nel testo unico in materia di societa' a partecipazione pubblica di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175. Le attivita' delle Agenzie di cui al comma 1 sono svolte avvalendosi delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente nei bilanci delle rispettive Autorita' di Sistema portuale. 3. L'Agenzia di cui al comma 1, sentite le organizzazioni sindacali dei lavoratori, svolge attivita' di supporto alla collocazione professionale dei lavoratori iscritti nei propri elenchi anche attraverso la loro formazione professionale in relazione alle iniziative economiche ed agli sviluppi industriali dell'area di competenza della Autorita' di Sistema portuale. Le Regioni possono cofinanziare i piani di formazione o di riqualificazione del personale che dovessero rendersi necessari, avvalendosi delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente. 4. La somministrazione di lavoro puo' essere richiesta da qualsiasi impresa abilitata a svolgere attivita' nell'ambito portuale di competenza della Autorita' di Sistema portuale di cui al comma 1, al fine di integrare il proprio organico. Nei porti in cui sia gia' presente un soggetto autorizzato ai sensi dell'articolo 17 della legge 28 gennaio 1994, n. 84, la richiesta di manodopera per lo svolgimento delle operazioni portuali dovra' transitare attraverso tale soggetto e quest'ultimo, qualora non abbia personale sufficiente per far fronte alla fornitura di lavoro portuale temporaneo, dovra' rivolgersi alla predetta Agenzia. 5. In caso di nuove iniziative imprenditoriali e produttive che dovessero localizzarsi in porto, le imprese autorizzate o concessionarie devono fare ricorso per le assunzioni a tempo determinato ed indeterminato, laddove vi sia coerenza tra profili professionali richiesti e offerti, ai lavoratori dell'Agenzia secondo percentuali predeterminate nel relativo titolo abilitativo; lo stesso obbligo grava, in caso di previsioni di nuove assunzioni, sulle aziende gia' concessionarie ai sensi dell'articolo 18 della legge 28 gennaio 1994, n. 84. I lavoratori individuati devono accettare l'impiego proposto, pena la cancellazione dagli elenchi detenuti dalla Agenzia. 6. All'Agenzia di somministrazione di cui al comma 1, ad eccezione delle modalita' istitutive e di finanziamento, si applicano le norme che disciplinano le agenzie di somministrazione di cui ai decreti legislativi 10 settembre 2003, n. 276, e 15 giugno 2015, n. 81, ove compatibili. 7. Al personale di cui al comma 1, per le giornate di mancato avviamento al lavoro, si applicano le disposizioni di cui al comma 2 dell'articolo 3 della legge 28 giugno 2012, n. 92 nel limite delle risorse aggiuntive pari a 18.144.000 euro per l'anno 2017, 14.112.000 euro per l'anno 2018 e 8.064.000 euro per l'anno 2019. 8. Alla scadenza dei trentasei mesi, ove restassero in forza all'Agenzia di cui al comma 1, lavoratori non reimpiegati, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti puo' autorizzare la trasformazione di tale Agenzia, su istanza dell'Autorita' di Sistema portuale competente e laddove sussistano i presupposti, in un'Agenzia ai sensi dell'articolo 17 della legge 28 gennaio 1994, n. 84. 9. Agli oneri derivanti dal comma 7, pari a 18.144.000 euro per l'anno 2017, 14.112.000 euro per l'anno 2018 e 8.064.000 euro per l'anno 2019, si provvede: a) quanto a 18.144.000 euro per l'anno 2017, mediante versamento all'entrata del bilancio dello Stato da effettuare nell'anno 2017, di quota di corrispondente importo delle disponibilita' in conto residui del Fondo sociale per occupazione e formazione, di cui all'articolo 18, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2; b) quanto a 14.112.000 euro per l'anno 2018 e 8.064.000 euro per l'anno 2019 mediante corrispondente riduzione dell'autorizzazione di spesa relativa al Fondo sociale per occupazione e formazione, di cui all'articolo 18, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2. 10. Alla compensazione degli effetti finanziari in termini di fabbisogno e di indebitamento netto derivanti dall'attuazione delle disposizioni di cui al comma 9 pari a 18.144.000 euro per l'anno 2017 si provvede mediante corrispondente riduzione del Fondo per la compensazione degli effetti finanziari non previsti a legislazione vigente conseguenti all'attualizzazione di contributi pluriennali di cui all'articolo 6, comma 2, del decreto-legge 7 ottobre 2008, n. 154, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 2008, n. 189.

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In G.U. n. 33 del 9.2.2018, il d.lgs. 13 dicembre 2017, n. 232 recante "Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 4 agosto  2016, n. 169, concernente le Autorità portuali". Tra le principali novità apportate alla l. 28.1.1994, n. 84, viene meglio definito il Piano regolatore di sistema portuale che dev'essere coerente con il Piano generale dei trasporti e della logistica (PGTL) e con gli orientamenti europei in materia di portualita', logistica e reti infrastrutturali, nonché con  il  Piano  strategico  nazionale  della  portualita' e della logistica. Esso si compone di un Documento di pianificazione strategica di sistema (DPSS) e dei piani  regolatori portuali di ciascun porto. Viene definito nel dettaglio il contenuto del DPSS (art. 1, che modifica i commi da 1 a 5 dell'art. 5 l. n. 84/94).       Il Consiglio di Stato ha espresso parere favorevole con osservazioni (n. 2199 del 24 ottobre 2017) sullo schema di d.lgs. recante disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 169.     Con il d.lgs. 4 agosto 2016, n. 169 recante "Riorganizzazione, razionalizzazione e semplificazione della disciplina concernente le Autorita' portuali di cui alla legge 28 gennaio 1994, n. 84, in attuazione dell'articolo 8, comma 1, lettera f), della legge 7 agosto 2015, n. 124" in G.U. n. 203 del 31.08.2016 è stata attuato la riforma delle Autorità portuali con importanti novità. Ecco le principali: a) la pianificazione portuale dev'essere improntata a criteri di sostenibilita'energetica ed ambientale (art. 5);b) sono apportate importanti modifiche ai piano regolatori portuali (art. 6); c) sono sostituite le attuali Autorità portuali (ora Autorità di Sistema Portuale o AdSP che è qualificato come ente pubblico non economico di rilevanza  nazionale  a ordinamento  speciale  ed  dotato  di  autonomia  amministrativa, organizzativa, regolamentare, di bilancio e  finanziaria) dalle seguenti (art. 7 commi 1, 2, 5 e allegato A): - del Mare Ligure occidentale (Porti di Genova, Savona e Vado Ligure); - del Mare Ligure orientale (porti di La Spezia e Marina di Carrara); - del Mar Tirreno settentrionale (Porti di Livorno, Capraia, Piombino, Portoferraio, Rio Marina e Cavo); - del Mar Tirreno centro-settentrionale (Porti di Civitavecchia, Fiumicino e Gaeta); - del Mar Tirreno centrale (Porti di Napoli, Salerno e Castellamare di Stabia); - dei Mari Tirreno meridionale e Jonio e dello Stretto (Porti di Gioia Tauro, Crotone (porto  vecchio e nuovo), Corigliano Calabro, Taureana di Palmi, Villa San  Giovanni, Messina, Milazzo, Tremestieri, Vibo Valentia e Reggio Calabria); - del Mare di Sardegna (Porti  di Cagliari, Foxi-Sarroch, Olbia, Porto Torres, Golfo Aranci,  Oristano, Portoscuso-Portovesme  e  Santa  Teresa  di  Gallura  (solo  banchina commerciale)); - del Mare di Sicilia occidentale (Porti di Palermo, Termini Imerese, Porto Empedocle e Trapani); - del Mare di Sicilia orientale (Porti di Augusta e Catania); - del Mare Adriatico meridionale (Porti di Bari, Brindisi, Manfredonia, Barletta e Monopoli); - del Mare Ionio (porto di Taranto); - del Mare Adriatico centrale (Porto di Ancona, Falconara, Pescara, Pesaro, San Benedetto del Tronto (esclusa darsena turistica) e Ortona); - del Mare Adriatico centro-settentrionale (Porto di Ravenna); - del Mare Adriatico settentrionale (Porti di Venezia e Chioggia); - del Mare Adriatico orientale (Porto di Trieste); d) con regolamento, da adottare, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, ai sensi dell'articolo 17,  comma  2, della legge 23 agosto 1988, n.  400,  possono  essere  apportate,  su richiesta  motivata  del  Presidente   della   Regione   interessata, modifiche all'allegato A alla presente legge, al fine di consentire: a) l'inserimento di un porto di rilevanza economica regionale o  di un porto di rilevanza economica nazionale la cui  gestione  e'  stata trasferita   alla   regione   all'interno   del   sistema   dell'AdSP territorialmente competente; b) il trasferimento di un porto a una diversa AdSP,  previa  intesacon la Regione nel cui territorio ha sede l'AdSP di destinazione (art. 7, comma 2-bis). Ulteriori previsioni concernenti la soppressione e la modifica delle circoscrizioni territoriali della AdSP sono contenute ai commi 14 e 15;e) l'AdSP svolte le seguenti funzioni (art. 7, comma 4): -  indirizzo,   programmazione,    coordinamento,    regolazione, promozione  e  controllo,  anche  mediante  gli  uffici  territoriali portuali secondo quanto previsto all'articolo 6-bis, comma 1, lettera c),  delle  operazioni  e  dei  servizi  portuali,  delle   attivita' autorizzatorie e concessorie di cui agli articoli 16, 17 e 18 e delle altre attivita' commerciali ed industriali  esercitate  nei  porti  e nelle circoscrizioni territoriali. All'autorita' di sistema  portuale sono, altresi', conferiti poteri di ordinanza, anche  in  riferimento alla sicurezza rispetto a rischi di incidenti connessi alle attivita' e alle condizioni di igiene sul lavoro ai sensi dell'articolo 24; -  manutenzione  ordinaria  e  straordinaria  delle  parti  comuni nell'ambito portuale, ivi compresa quella  per  il  mantenimento  dei fondali (da eseguirsi tramite procedura ad evidenza pubblica ex d.lgs. n. 50/2016, cfr. comma 10); - affidamento e controllo delle attivita' dirette alla fornitura a titolo oneroso agli utenti portuali di servizi di interesse generale, non coincidenti ne' strettamente connessi alle operazioni portuali di cui all'articolo 16, comma 1, individuati con  decreto  del  Ministro delle infrastrutture e dei trasporti (da eseguirsi tramite procedura ad evidenza pubblica ex d.lgs. n. 50/2016, cfr. comma 10); - coordinamento delle attivita'  amministrative  esercitate  dagli enti e dagli organismi pubblici nell'ambito dei porti  e  nelle  aree demaniali marittime comprese nella circoscrizione territoriale; - amministrazione in via esclusiva  delle  aree  e  dei  beni  del demanio marittimo ricompresi nella propria circoscrizione; - promuove  forme  di  raccordo  con  i  sistemi  logistici  retro portuali e interportuali;   f) le AdSP sono ora soggette al patrocinio soltanto facoltativo dell'Avvocatura di Stato (art. 7, comma 7); g) istituzione presso i porti che erano in passato Autorità Portuali sono istituti gli Uffici territoriali portuali a ciascuno dei quali è preposto un segretario generale o un suo delegato, avente le seguenti funzioni (art. 8, comma 1): - istruttori, ai fini dell'adozione delle deliberazioni di competenza dell'AdSP; - di proposta, con riferimento  a  materie  di  rilevo  locale  in relazione alle quali la competenza appartiene all'AdSP; - funzioni delegate dal Comitato  di  gestione,  di  coordinamento delle operazioni in porto, di rilascio delle concessioni per  periodi fino a durata di quattro anni anche determinando i rispettivi canoni, nonche'  i  compiti  relativi  alle  opere  minori  di   manutenzione ordinaria in ambito di interventi ed edilizia  portuale,  sulla  base delle disposizioni  di  legge  e  delle  determinazioni  al  riguardo adottate dai competenti organi dell'AdSP; h) presso  ciascun  porto  dell'AdSP  ubicato  presso  un   comune capoluogo di provincia non gia' sede di  Autorita'  portuale,  l'AdSP puo' istituire un ufficio amministrativo decentrato (art. 8, comma 2); i) gli organi della AdSP sono il Presidente (scelto fra cittadini dei Paesi membri dell'Unione europea aventi comprovata esperienza e qualificazione professionale nei settori dell'economia dei trasporti e portuale), il Comitato di gestione (CG) ed il Collegio dei revisori dei conti. E' prevista la revoca del Presidente e lo scioglimento del CG con decreto del Ministero delle infrastrutturee dei trasporti a determinate condizioni(art. 9 l) il Presidente ha la rappresentanza legale  dell'AdSP,  resta  in carica quattro anni e puo' essere riconfermato  una  sola  volta. Al Presidente  sono  attribuiti  tutti   i   poteri   di   ordinaria e straordinaria amministrazione,  salvo  quelli  riservati  agli  altri organi dell'AdSP ai sensi della presente legge(art. 10) m) le competenze del Comitato di gestione e del Comitato dei Revisori sono prescritte rispettivamente agli art. 11 e 13; n) presso ciascuna AdSP è istituito un Organismo di partenariato della risorsa mare che ha funzioni di confronto partenariale  ascendente  e discendente, nonche' funzioni consultive  di  partenariato  economico sociale, in particolare in ordine : a) all'adozione del piano regolatore di sistema portuale;   b) all'adozione del piano operativo triennale; c) alla determinazione dei livelli dei servizi resi nell'ambito del sistema portuale dell'AdSP suscettibili di incidere sulla complessiva funzionalita' ed operativita' del porto;   d) al progetto di bilancio preventivo e consuntivo;   e) alla composizione degli strumenti di cui all'articolo  9,  comma 5, lettera l) (art. 14); o) è prevista altresì l'istituzione della Conferenza nazionale di coordinamento delle AdSP con il compito di coordinare e armonizzare, a livello nazionale,  le  scelte strategiche che attengono i grandi investimenti infrastrutturali,  le scelte di pianificazione urbanistica in ambito portuale, le strategie di attuazione delle  politiche  concessorie  del  demanio  marittimo, nonche'  le  strategie  di  marketing  e   promozione   sui   mercati internazionali del sistema portuale nazionale, operando, altresi', la verifica  dei  piani  di  sviluppo  portuale,  attraverso  specifiche relazioni predisposte dalle singole AdSP(art. 14, comma 5); p) presso la AdSP opera lo Sportello  Unico  Amministrativo  (SUA)  che,  per  tutti  i procedimenti amministrativi ed autorizzativi concernenti le attivita'economiche, ad eccezione di quelli  concernenti  lo  Sportello  unico doganale e dei controlli e la sicurezza (artt. 18 e 20).           IL REQUISITO DELLA CITTADINANZA NELL'ACCESSO AI PUBBLICI IMPIEGHI/INCARICHI PUBBLICI   Sul requisito della cittadinanza italiana per l'accesso ai pubblici impieghi, si veda l'ordinanza del Consiglio di Stato, sez. IV, 9.1.2013, n. 11, con la quale si chiede che la Corte di Giustizia dell'Unione Europea verifichi la compatibilità con la disciplina eurounitaria dell'art. 8 l. 28 gennaio 1994, n. 84 recante «Riordino della legislazione in materia portuale».   Ricordiamo che l'art. 8 della predetta legge prescrive i requisiti che occorre possedere per poter conseguire la nomina a presidente dell'Autorità Portuale ma NON include, tra gli stessi, il possesso della cittadinanza italiana.   Ecco le conclusione dell'Avvocato Generale Nils Wahl del 5.6.2014, nella causa C270/13 "L’articolo 45 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta ad una norma nazionale che limita ai cittadini dello Stato membro l’incarico di presidente di un’autorità portuale, che esercita funzioni come quelle indicate nell’articolo 8, paragrafo 3, della legge n. 84 del 28 gennaio 1994, «Riordino della legislazione in materia portuale»".   La CGUE con sentenza 10 settembre 2014, C-270/13 si è finalmente pronunciata sulla pregiudiziale comunitaria sollevata al Consiglio di Stato con la precitata ordinanza n. 11/2013 statuendo che osta "l’articolo 45, paragrafo 4, TFUE dev’essere interpretato nel senso che non consente a uno Stato membro di riservare ai propri cittadini l’esercizio delle funzioni di presidente di un’autorità portuale".   La decisione è altresì assai importante perché precisa, per la prima volta, gli stringenti limiti entro i quali una normativa nazionale può restringere l'accesso ai pubblici impieghi esclusivamente ai propri concittadini. Infatti, la Corte argomenta che è necessario che i poteri d'imperio di natura pubblicistica, la cui sola sussistenza può legittimare la riserva di cittadinanza, "siano effettivamente esercitati in modo abituale da detto titolare e non rappresentino una parte molto ridotta delle sue attività. Infatti, come rammentato al punto 43 della presente sentenza, detta deroga deve ricevere un’interpretazione che ne limiti la portata a quanto è strettamente necessario per salvaguardare gli interessi generali dello Stato membro interessato, che non possono risultare in pericolo qualora poteri d’imperio vengano esercitati solo in modo sporadico, o addirittura eccezionalmente, da parte di cittadini di altri Stati membri (v. sentenze Colegio de Oficiales de la Marina Mercante Española, EU:C:2003:515, punto 44; Anker e a., C‑47/02, EU:C:2003:516, punto 63, nonché Commissione/Francia, C‑89/07, EU:C:2008:154, punto 14)".     Il Consiglio di Stato, sez. IV, 10 marzo 2015, n. 1210 in adesione all'interpretazione della CGUE, ha chiarito che:   la deroga prevista dall’art. 45, par. 4, T.F.U.E. non trova applicazione a impieghi che, pur dipendendo dallo Stato o da altri enti pubblici, non implicano tuttavia alcuna partecipazione a compiti spettanti alla pubblica amministrazione propriamente detta;   "la nozione di “lavoratore”, ai sensi dell’art. 45 T.F.U.E., ha portata autonoma propria del diritto dell’Unione e non va interpretata restrittivamente;   - pertanto, deve essere qualificato come “lavoratore” ai sensi dell’art. 45 citato chiunque svolga attività reali ed effettive, ad esclusione di attività talmente ridotte da porsi come puramente marginali e accessorie;   - la caratteristica del rapporto di lavoro è data, secondo la giurisprudenza della Corte, dalla circostanza che una persona fornisca per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceve una retribuzione;   - ne consegue che il rapporto di subordinazione e il pagamento di una retribuzione formano gli elementi costitutivi di qualsiasi rapporto di lavoro dipendente, purché l’attività professionale in questione presenti un carattere reale ed effettivo [...]"   - in concreto, le funzioni attribuite al presidente di un’Autorità portuale comportano bensì poteri d’imperio (poteri di ingiunzione e poteri di adottare provvedimenti di carattere coattivo), in astratto suscettibili di rientrare nella deroga prevista dall’art. 45, par. 4, T.F.U.E.;   - tuttavia, il ricorso a tale deroga non può essere giustificato dal solo fatto che il diritto nazionale attribuisca poteri d’imperio al presidente di un’Autorità portuale, ma è necessario pure che tali poteri siano effettivamente esercitati in modo abituale dal titolare e non rappresentino una parte molto ridotta delle sue attività;   - inoltre, tale deroga deve ricevere un’interpretazione che ne limiti la portata a quanto è strettamente necessario per salvaguardare gli interessi generali dello Stato membro interessato, che non possono risultare in pericolo qualora poteri d’imperio vengano esercitati solo in modo sporadico, o addirittura eccezionalmente, da parte di cittadini di altri Stati membri;   - nella specie, risulta che i poteri del presidente di un’Autorità portuale costituiscono una parte marginale della sua attività, la quale presenta in generale un carattere tecnico e di gestione economica che non può essere modificato dal loro esercizio e i medesimi poteri possono essere esercitati unicamente in modo occasionale o in circostanze eccezionali;   - in tale contesto, un’esclusione generale dell’accesso dei cittadini di altri Stati membri alla carica di presidente di un’Autorità portuale italiana costituisce una discriminazione fondata sulla nazionalità vietata dall’art. 45, paragrafi da 1 a 3, T.F.U.E."   E pertanto in conclusione "per il tramite dell’art. 11 Cost., le disposizioni sulla libertà di circolazione all’interno dell’Unione, poste dall’art. 45 T.F.U.E., siano da considerarsi recepite nell’ordinamento interno, nell’ambito del quale il diritto dei cittadini dell’Unione di accedere a posti di lavoro nel nostro Paese è assistito dalla garanzia generale dell’art. 45 citato. Deve pertanto dirsi - a integrazione e, se del caso, anche a parziale correzione di quanto osservato nell’ordinanza di rinvio - che l’art. 51 Cost. non richiede alcuna disapplicazione, poiché va piuttosto letto in conformità all’art. 11, nel senso di consentire l’accesso dei cittadini degli Stati dell’Unione europea agli uffici pubblici e alle cariche pubbliche nazionali in via generale, sulla base del principio della libera circolazione delle persone ex art. 45 T.F.U.E., salvo gli eventuali limiti espressi o legittimamente ricavabili dal sistema, con riguardo alla concreta partecipazione all’esercizio di pubblici poteri o comunque alle circostanze poste in rilievo nella ricordata sentenza della Corte di giustizia (della quale si vedano i parr. 44 e segg.). E’ alla luce delle disposizioni dell’art. 45 ricordato, come interpretato dalla Corte di giustizia, che, in definitiva, deve essere interpretata, applicata e, occorrendo, integrata la normativa dettata al riguardo dal legislatore nazionale (art. 37 del decreto legislativo n. 29 del 1993, indi art. 24 del decreto legislativo n. 80 del 1998, indi ancora art. 38 del decreto legislativo n. 165 del 2001; decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 7 febbraio 1994, n. 174)"

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Importante intervento del Consiglio di Stato, Sez. VI, 18.12.2012, n. 6488 con il quale si è stabilito, tra l'altro, che:   - "Il legislatore dunque impone per la realizzazione dei porti turistici il rispetto della disciplina pubblicistica in tema di progettazione delle opere pubbliche e relativi livelli (progetto preliminare, definitivo, esecutivo). 16.9. A conferma della natura pubblicistica delle opere portuali turistiche, si consideri che, per una norma comunitaria vincolante per lo Stato italiano, le concessioni del demanio marittimo devono essere affidate con procedura di evidenza pubblica ed avere durata temporale limitata, al fine di consentire un mercato concorrenziale e non sottrarre a tempo indeterminato i beni demaniali al mercato (Corte cost., 20 maggio 2010, n. 180; Id., 26 novembre 2010, n. 340; Id., 18 luglio 2011, n. 213: tali decisioni hanno dichiarato illegittime leggi regionali che prevedevano proroghe ex lege di concessioni del demanio marittimo già rilasciate, sia pure nel distinto settore delle concessioni balneari)";   - "La circostanza che il porto turistico, a differenza degli altri porti, non è aperto indiscriminatamente al pubblico ma consente l’utilizzo di posti barca in via esclusiva, non è sufficiente a escludere la natura pubblica delle opere, atteso che - trattandosi di opere pubbliche sul demanio pubblico - ne deriva la demanialità anche del porto turistico; il che non è incompatibile con un uso del bene demaniale, in virtù del regime concessorio, riservato solo a determinate categorie di utenti. Sono salvi i diversi casi in cui la concessione di costruzione e gestione del porto turistico preveda specificamente la proprietà superficiaria delle opere in capo al  concessionario, proprietà necessariamente a termine, essendo destinata a cessare allo scadere della concessione; si impone all’uopo una interpretazione complessiva della concessione per acclarare se abbia inteso attribuire o meno al concessionario il diritto di superficie sulle opere portuali [Cass. civ., sez. I, 4 maggio 1998, n. 4402]";   - "In conclusione, i porti turistici, in quanto realizzati in virtù di concessione su area demaniale, per il principio dell’accessione costituiscono beni demaniali (l’art. 822 c.c. menziona i porti), e dunque beni pubblici, soggetti al regime delle opere pubbliche, e solamente gestiti da soggetti privati per il periodo di durata della concessione, ritornando, allo scadere della concessione, nella disponibilità dell’ente pubblico, e fatti salvi i casi in cui l’atto concessorio preveda a favore del concessionario la proprietà superficiaria a termine delle opere portuali, che è proprietà privata per la sola durata della concessione, consolidandosi, allo scadere della concessione, quale proprietà pubblica demaniale";   - "La natura di servizio pubblico non è esclusa dal fatto che il porto turistico non è utilizzato da una collettività indifferenziata, ma da una fascia ristretta di utenti, atteso che si tratta comunque di un servizio rivolto ad un numero indeterminato di soggetti, verso corrispettivo";   - "la rilevanza economica va intesa come possibilità che dalla gestione del servizio si ricavi un profitto e come contendibilità sul mercato del servizio. Ciò implica che la rilevanza economica del servizio non può essere discettata solo in astratto, ma necessita anche di una verifica caso per caso, avuto riguardo anche al contesto sociale ed economico e alla dimensione del servizio: un medesimo servizio può avere rilevanza economica in un dato comune e non in un altro, avuto riguardo ai dati suindicati (v. ad es. il servizio di illuminazione votiva, che in funzione della maggiore o minore dimensione del Comune può o meno avere rilevanza economica: Cons. St., sez. V, 14 aprile 2008, n. 1600; Cons. St., sez. V, 5 dicembre 2008, n. 6049; Cons. St., sez. V, 26 gennaio 2011, n. 552; Cons. St., sez. V, 24 marzo 2011, n. 1784)", sicché "individuato un servizio pubblico che possa in astratto avere una rilevanza economica, si impone una verifica in concreto della contendibilità di tale servizio sul mercato avuto riguardo alla specifica realtà locale";   - "l’art. 3, comma 27, l. n. 244/2007 non impone senz’altro il divieto di costituzione e il mantenimento di partecipazioni nelle società degli enti locali, ma impone una verifica della loro utilità o meno per i fini istituzionali dell’ente. La disposizione afferma che gli enti non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società, e prevede la dismissione delle partecipazioni entro 36 mesi. Ma la disposizione in commento, se impone agli enti locali di dismettere le partecipazioni societarie, certo non impone di mettere in liquidazione le società o di impedire ad esse di continuare ad operare sul mercato se affidatarie di un servizio pubblico ottenuto con gara";   - "l'art. 1, comma 18, d.l. n. 194/2009, che prevede una proroga legale delle concessioni giustificata dalla necessità di rivedere il quadro normativo, al fine di prevedere una procedura di evidenza pubblica, non può che riferirsi a quelle concessioni per le quali nel 2009 non era normata una procedura di evidenza pubblica, vale a dire le concessioni balneari e non anche quelle portuali [v. Tar Campania – Napoli sez. VII, 9 luglio 2012, n. 3293, condivisa sotto tale profilo in sede cautelare da Cons. St., sez. VI, 29 agosto 2012, n. 3397, ord.; Tar Puglia – Lecce, sez. I, 24 marzo 2011 n. 546; circolare MIT 6 maggio 2010, n. 6105]. La soluzione trova conferma anche in virtù di una lettura comparata del citato art. 1, comma 18, con il sopravvenuto art. 13-bis, d.l. 29 dicembre 2011, n. 216, inserito dalla legge di conversione 24 febbraio 2012, n. 12, che prevede una proroga fino al 31 dicembre 2012 delle concessioni del demanio marittimo, lacuale e fluviale, includendovi espressamente anche le concessioni ad uso diverso da quello turistico-ricreativo (v. circolare MIT 21 marzo 2012 prot. 3694)".

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Secondo la Corte Costituzionale n. 231/2012:   - "le farmacie, nonostante il carattere pubblicistico della loro disciplina, determinato da esigenze inerenti alla tutela sanitaria, restano imprese private sia pure sottoposte a rigorosi controlli: sentenza n. 68 del 1961";   - "«ai fini del riparto delle competenze legislative previsto dall’articolo 117 della Costituzione, la “materia” della organizzazione del servizio farmaceutico, non diversamente (cfr. sentenza n. 61 del 1968) da quanto già avveniva sotto il regime anteriore alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), va ricondotta al titolo di competenza concorrente della tutela della salute» (sentenza n. 87 del 2006, resa proprio in tema di concorsi per l’assegnazione di sedi farmaceutiche); e ciò perché la complessa regolamentazione pubblicistica della attività economica di rivendita dei farmaci è preordinata al fine di assicurare e controllare l’accesso dei cittadini ai prodotti medicinali ed in tal senso a garantire la tutela del fondamentale diritto alla salute, restando solo marginale, sotto questo profilo, sia il carattere professionale, sia la sostanziale natura commerciale dell’attività del farmacista (sentenze n. 150 del 2011, n. 295 del 2009 e n. 430 del 2007)";   - "il principio del concorso (da svolgersi, nella sua forma propria, per titoli ed esami) sia suscettibile di deroga, allorquando si sia in presenza di situazioni eccezionali giustificate da motivi o finalità di interesse pubblico: in tal senso, si possono ricordare le disposizioni di sanatoria di pregresse gestioni di fatto di sedi farmaceutiche di cui all’art. 1 della legge 16 marzo 1990, n. 48 (Norma transitoria in materia di gestione delle farmacie urbane), ed all’art. 14 della legge 8 novembre 1991, n. 362 (Norme di riordino del settore farmaceutico), nonché la normativa, sopravvenuta alla proposizione del presente giudizio in via principale – contenuta nell’art. 11, comma 3, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), come sostituito dalla legge di conversione 24 marzo 2012, n. 27 – che prevede che le regioni e le province autonome bandiscano un concorso straordinario «per soli titoli» per la prima copertura delle nuove sedi farmaceutiche (istituite in virtù della legge medesima) oltre che di quelle vacanti, non oggetto di procedure concorsuali già espletate o in via di svolgimento";

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L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 6 aprile 2018, n. 3 chiarisce funzione ed effetti dell'informativa antimafia sancendo che: "a) il provvedimento di cd. “interdittiva antimafia” determina una particolare forma di incapacità ex lege, parziale (in quanto limitata a specifici rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione) e tendenzialmente temporanea, con la conseguenza che al soggetto – persona fisica o giuridica – è precluso avere con la pubblica amministrazione rapporti riconducibili a quanto disposto dall’art. 67 d. lgs. 6 settembre 2011 n. 159”. b) l’art. 67, co. 1, lett. g) del d. lgs. 6 settembre 2011 n. 159, nella parte in cui prevede il divieto di ottenere, da parte del soggetto colpito dall’interdittiva antimafia, “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”, ricomprende anche l’impossibilità di percepire somme dovute a titolo di risarcimento del danno patito in connessione all’attività di impresa"     Pubblicato in G.U. n. 4 del 7.01.2015 il d.P.C.M. 30 ottobre 2014, n. 193 recante "Regolamento  recante  disposizioni  concernenti   le   modalità di funzionamento, accesso, consultazione e collegamento con il  CED,  di cui all'articolo 8 della legge 1° aprile 1981, n.  121,  della  Banca dati nazionale unica della  documentazione  antimafia,  istituita  ai sensi dell'articolo 96 del decreto legislativo 6 settembre  2011,  n. 159"   Il Consiglio di Stato, sez. III, 12 gennaio 2013, n. 126 ha annullato il provvedimento di scioglimento del Comune di Bordighera. La sentenza chiarisce che "come è stato osservato, la connotazione dell’ istituto nel vigente sistema normativo quale «misura di carattere straordinario» per fronteggiare «una emergenza straordinaria» (in termini, Corte costituzionale n. 103 del 19 marzo 1993, nell'escludere profili di incostituzionalità del previgente art. 15-bis della legge 19 marzo 1990, n. 55)"  e che non sia "sufficiente un mero quadro indiziario fondato su «semplici elementi», in base ai quali sia solo plausibile il potenziale collegamento o l’influenza dei sodalizi criminali verso gli amministratori comunali, con condizionamento delle loro scelte e ricaduta sul buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa, sul regolare funzionamento dei servizi e sulle stesse condizioni di sicurezza pubblica, dovendo detti elementi caratterizzarsi per concretezza, essere cioè assistiti da un obiettivo e documentato accertamento nella loro realtà storica; univocità, che sta a significare la loro direzione agli scopi che la misura di rigore è intesa a prevenire; rilevanza, che si caratterizza per l’idoneità all’effetto di compromettere il regolare svolgimento delle funzioni dell’ente locale".

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L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 27.07.2016, n. 21 torna sull'argomento dell'errore di diritto in materia di revocazione acclarando il seguente principio "non costituisce motivo di revocazione per omessa pronuncia il fatto che il giudice, nell’esaminare la domanda di parte, non si sia espressamente pronunciato su tutte le argomentazioni poste dalla parte medesima a sostegno delle proprie conclusioni".   L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 24.01.2014, n. 5 risolve una serie di dubbi sempre in materia di revocazione per errore di fatto. Innanzitutto si afferma, superando il precedente orientamento della Plenaria n. 2/2009 per effetto dell'entrata in vigore del nuovo codice del processo, che "salva ovviamente l’ipotesi di dolo del giudice, non sussiste per i magistrati che avevano pronunciato la sentenza revocanda alcuna incompatibilità a partecipare alla decisione sulla domanda di revocazione, atteso che essa non predica, per sua natura, un errore di giudizio", talché "alla luce del nuovo codice del processo amministrativo, debba escludersi l’applicabilità della norma di cui all’art. 51 n. 4 c.p.c. - richiamata dalla norma di rinvio di cui all’art. 17 c.p.a. - che prevede l’obbligo del giudice di astenersi quando abbia conosciuto della causa in altro grado del processo, allorquando sia lo “stesso ufficio giudiziario” che ha reso la pronuncia oggetto di revocazione, competente a decidere nuovamente; ne consegue che, ad eccezione dell’ipotesi del dolo del giudice o, comunque, dell’ipotesi in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, i magistrati che hanno pronunciato la sentenza impugnata per revocazione possono legittimamente far parte del collegio investito della cognizione del giudizio revocatorio". Per il resto la Plenaria ribadisce quelle che sono le caratteristiche che l'errore di fatto deve avere per poter costituire elemento di revocazione di un pronunciamento giurisdizionale: a) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato; b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa; d) l’errore deve inoltre apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche.   Aggiunge la Corte che l'errore di fatto revocatorio "non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali ovvero di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo se mai ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione" (fattispecie relativa ad un'eccezione di tardività dell'appello ritenuta fondata dal Giudice, per cui trattandosi di una questione che è stata affrontata e dibattuta in sede processuale dal Giudice, essa non può costituire oggetto di giudizio di revocazione per errore di fatto).   L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (10.1.2013, n. 1) è tornata sui (numerosi) requisiti necessari per poter intraprendere azione di revocazione per errore di fatto: a) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato;   b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato;   c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa.   La decisione non è condivisibile nella parte in cui ritiene indispensabile che sul fatto non dev'esserci stata controversia, poiché fa dipendere il mezzo di gravame dal fatto contingente (e concretamente irrilevante) che il documento o la circostanza di fatto di cui trattasi non siano stati fatti oggetto di contestazione ad opera della parte avversaria.

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Il TAR Lazio, sez. III-ter, 18.06.2012, n. 5567 ha avuto modo di acclarare che: -  "Con specifico riferimento ai diritti aeroportuali, va precisato che il complesso procedimento di determinazione degli stessi (nel quale sono coinvolti il Cipe e il Ministero dell’economia e delle finanze) si incentra essenzialmente sull’individuazione della loro entità, mentre la relativa tipologia e i rispettivi presupposti applicativi trovano definizione a livello di normativa primaria (se non di rango superiore, considerando accordi internazionali e fonti comunitarie; a tale riguardo si può osservare che l’art. 11-nonies d.l. n. 203 del 2005 cit., convertito con modificazioni dalla l. n. 248 del 2005, nel modificare l’art. 10, comma 10, l. 24 dicembre 1993, n. 537, ha fatto espresso rinvio alla “misura dei diritti aeroportuali di cui alla legge 5 maggio 1976, n. 324”)"; - la domanda di accertamento sulla misura dei diritti aeroportuali dovuti per i voli verso la Svizzera, è da ritenere che "fuoriuscirebbe dalla giurisdizione del giudice amministrativo, venendo in considerazione posizioni di diritto soggettivo dei vettori (sostanziandosi l’eventuale corresponsione di importi in misura maggiore rispetto a quella asseritamente dovuta in un mero indebito oggettivo) e non sussistendo un’ipotesi di giurisdizione esclusiva, atteso che i presupposti dell’obbligazione sono “interamente preregolati dalla legge e da atti amministrativi a contenuto generale, con esclusione di valutazioni discrezionali della p.a.” (così Cass. civ., sez. un., 17 ottobre 2006, n. 22245, che, benché intervenuta in epoca anteriore alla qualificazione normativa dei diritti in questione quali corrispettivi, ha reputato come la controversia tra concessionario e vettore aereo sui diritti aeroportuali, pur volendola ritenere afferente a un pubblico servizio, non avesse tuttavia a oggetto “posizioni giuridiche scaturite dal rapporto di concessione, né essendo relativa ad atti di natura provvedimentale”; v. anche, in linea più generale, Cass. civ., sez. un., 13 febbraio 2007, n. 3046, secondo cui nella normalità dei casi i provvedimenti tariffari, in quanto atti generali, non hanno una diretta incidenza sulla costituzione o modificazione di un rapporto giuridico dal quale scaturiscono posizioni di diritto soggettivo, non potendo la connessione con il provvedimento tariffario essere invocata al fine di far valere in giudizio davanti al g.a., affermandone la giurisdizione esclusiva, situazioni di diritto soggettivo scaturenti dal rapporto tra avente diritto alla tariffa e terzi)"".

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Il Consiglio di Stato, Ad. Plen., 25 maggio 2021, n. 8 torna sulla tematica dell'ottemperanza affrontando i rapporti tra i poteri dell'Amministrazione e quelli del commissario ad acta e sancedo i seguenti principi di merito: a) il potere dell’amministrazione e quello del commissario ad acta sono poteri concorrenti, di modo che ciascuno dei due soggetti può dare attuazione a quanto prescritto dalla sentenza passata in giudicato, o provvisoriamente esecutiva e non sospesa, o dall’ordinanza cautelare fintanto che l’altro soggetto non abbia concretamente provveduto;b) gli atti emanati dall’amministrazione, pur in presenza della nomina e dell’insediamento del commissario ad acta, non possono essere considerati di per sé affetti da nullità, in quanto gli stessi sono adottati da un soggetto nella pienezza dei propri poteri, a nulla rilevando a tal fine la nomina o l’insediamento del commissario.c) gli atti adottati dal commissario ad acta non sono annullabili dall’amministrazione nell’esercizio del proprio potere di autotutela, né sono da questa impugnabili davanti al giudice della cognizione, ma sono esclusivamente reclamabili, a seconda dei casi, innanzi al giudice dell’ottemperanza, ai sensi dell’art. 114, co. 6, c.p.a. ovvero innanzi al giudice del giudizio sul silenzio, ai sensi dell’art. 117, co. 4, c.p.a.d) gli atti adottati dal commissario ad acta dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, ovvero quelli che l’amministrazione abbia adottato dopo che il commissario ad acta abbia provveduto, sono da considerare inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse, a seconda dei casi, al giudice dell’ottemperanza o al giudice del giudizio sul silenzio.     Il Consiglio di Stato, Ad. Plen., 9 maggio 2019, n. 7 interviene ancora una volta sulla tematica dell'astreinte in merito alla modificabilità del regime sanzionatorio in sede di ottemperanza per chiarimenti, sancendo il seguente principio "9.1. E’ sempre possibile in sede di c.d. “ottemperanza di chiarimenti” modificare la statuizione relativa alla penalità di mora contenuta in una precedente sentenza d’ottemperanza, ove siano comprovate sopravvenienze fattuali o giuridiche che dimostrino, in concreto, la manifesta iniquità in tutto o in parte della sua applicazione.9.2. Salvo il caso delle sopravvenienze, non è in via generale possibile la revisione ex tunc dei criteri di determinazione della astreinte dettati in una precedente sentenza d’ottemperanza, sì da incidere sui crediti a titolo di penalità già maturati dalla parte beneficiata. Tuttavia, ove il giudice dell’ottemperanza non abbia esplicitamente fissato, a causa dell’indeterminata progressività del criterio dettato, il tetto massimo della penalità, e la vicenda successiva alla determinazione abbia fatto emergere, a causa proprio della mancanza del tetto, la manifesta iniquità, quest’ultimo può essere individuato in sede di chiarimenti, con principale riferimento, fra i parametri indicati nell’art. 614 bis c.pc., al danno da ritardo nell’esecuzione del giudicato"     Il Consiglio di Stato, Ad. Plen., 9.6.2016, n. 11 interviene ancora in materia di giudizio di ottemperanza, di questioni di pregiudizialità eurounitarie e di estensione del giudicato enucleando i seguenti principi di diritto: A) IL LIMITE DEL GIUDICATO NEL CASO IN CUI ALL'AMMINISTRAZIONE RESIDUI L'ESERCIZIO DI UN POTERE DISCREZIONALE 1) il giudicato non può incidere sui tratti liberi dell’azione amministrativa lasciati impregiudicati dallo stesso giudicato e, in primo luogo, sui poteri non esercitati e fondati su presupposti fattuali e normativi diversi e successivi rispetto a quest’ultimo; 2) l’esecuzione del giudicato amministrativo (sebbene quest’ultimo abbia un contenuto poliforme), non può essere il luogo per tornare a mettere ripetutamente in discussione la situazione oggetto del ricorso introduttivo di primo grado, su cui il giudicato ha, per definizione, conclusivamente deciso; se così fosse, il processo, considerato nella sua sostanziale globalità, rischierebbe di non avere mai termine, e questa conclusione sarebbe in radicale contrasto con il diritto alla ragionevole durata del giudizio, all’effettività della tutela giurisdizionale, alla stabilità e certezza dei rapporti giuridici (valori tutelati a livello costituzionale e dalle fonti sovranazionali alle quali il nostro Paese è vincolato); da qui l’obbligo di esecuzione secondo buona fede e senza che sia frustrata la legittima aspettativa del privato alla stabile definizione del contesto procedimentale; B) I RAPPORTI TRA IL GIUDICATO ED I FATTI SOPRAVVENUTI 3) l’Amministrazione soccombente a seguito di sentenza irrevocabile di annullamento di propri provvedimenti ha l’obbligo di ripristinare la situazione controversa, a favore del privato e con effetto retroattivo, per evitare che la durata del processo vada a scapito della parte vittoriosa; 4) questa retroattività dell’esecuzione del giudicato non può essere intesa in senso assoluto, ma va ragionevolmente parametrata alle circostanze del caso concreto ed alla natura dell’interesse legittimo coinvolto (pretensivo, oppositivo, procedimentale); 5) in particolare l’esecuzione del giudicato può trovare limiti solo nelle sopravvenienze di fatto e diritto antecedenti alla notificazione della sentenza divenuta irrevocabile; sicché la sopravvenienza è strutturalmente irrilevante sulle situazioni giuridiche istantanee, mentre incide su quelle durevoli nel solo tratto dell’interesse che si svolge successivamente al giudicato, determinando non un conflitto ma una successione cronologica di regole che disciplinano la situazione giuridica medesima; 6) anche per le situazioni istantanee, però, la retroattività dell’esecuzione del giudicato trova, peraltro, un limite intrinseco e ineliminabile (che è logico e pratico, ancor prima che giuridico), nel sopravvenuto mutamento della realtà - fattuale o giuridica - tale da non consentire l’integrale ripristino dello status quo ante (come esplicitato dai risalenti brocardi factum infectum fierinequit e ad impossibilia nemo tenetur ) che semmai, ove ne ricorrano le condizioni, può integrare il presupposto esplicito della previsione del risarcimento del danno, per impossibile esecuzione del giudicato, sancita dall’art. 112, co. 3, c.p.a. C) LA RICORRIBILITA' ALLA CORTE DI CASSAZIONE DELLE SENTENZE CHE VIOLANO INTERPRETAZIONE DELLA C.G.U.E. 7) le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno anche recentemente ribadito, l’interpretazione da parte del giudice amministrativo di una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione Europea, secondo quanto risultante da una pronunzia della Corte di Giustizia successivamente intervenuta, dà luogo alla violazione di un “limite esterno” della giurisdizione, rientrando in uno di quei “casi estremi” in cui il giudice adotta una decisione anomala o abnorme, omettendo l’esercizio del potere giurisdizionale per errores in iudicando o in procedendo che danno luogo al superamento del limite esterno (in questi termini, cfr. Cass. Sez. Un. ordinanza 8 aprile 2016, n. 6891, che richiama in motivazione gli analoghi principi precedentemente espressi da Cass. Sez. Un. 6 febbraio 2015, n. 2403)   Ancora il Consiglio di Stato, Ad. Plen., 25 giugno 2014, n. 15 interviene chiarendo che la previsione di cui all'art. 114, comma 4, lett. e) c.p.a., seconda la quale "salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo" (cd. astreinte), trova applicazione "per tutte le decisioni di condanna di cui al precedente art. 113, ivi comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni di natura pecuniaria". Tale disposizione, chiarisce ancora la Plenaria, "costituisce una novità nel processo amministrativo italiano, delinea una misura coercitiva indiretta a carattere pecuniario, inquadrabile nell’ambito delle pene private o delle sanzioni civili indirette, che mira a vincere la resistenza del debitore, inducendolo ad adempiere all’ obbligazione sancita a suo carico dall’ordine del giudice".   Il Consiglio di Stato, Ad. Plen., 9/2013 in materia di ottemperanza della decisione assunta in sede ricorso straordinaria al Capo dello Stato, ha statuito che essendo tale ricorso qualificabile "come decisione di giustizia inquadrabile nel sistema della giurisdizione amministrativa" si giunge inevitabilmente  "al precipitato indefettibile della collocazione del decreto che definisce il ricorso al Capo dello Stato, resa in base al parere obbligatorio e vincolante del Consiglio di Stato nel novero dei provvedimenti del giudice amministrativo di cui alla lettera b) dell'art. 112, comma 2. Ne consegue che il ricorso per l'ottemperanza deve essere proposto, ai sensi dell'art. 113, comma 1, dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si identifica «il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta» (conf. per tutte, Cass. sez. un., 28 gennaio 2011, n. 2065 e 15 marzo 2012, n. 2129; Cons. Stato, Ad. Plen,. 5 giugno 2012, n. 18; sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4638; sez. VI, 10 giugno 2011, n. 3513)"     Il Consiglio di Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2 è intervenuto in materia di qualificazione del giudizio di ottemperanza, statuendo che esso "presenta un contenuto composito, entro il quale convergono azioni diverse, talune riconducibili alla ottemperanza come tradizionalmente configurata; altre di mera esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata nei confronti della Pubblica Amministrazione; altre ancora aventi natura di cognizione, e che, in omaggio ad un principio di effettività della tutela giurisdizionale, trovano nel giudice dell’ottemperanza il giudice competente, e ciò anche a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio di merito (principio che peraltro, come è noto, non ha copertura costituzionale)". Il Consiglio di Stato al riguardo precisa che "la disciplina dell’ottemperanza, lungi dal ricondurre la medesima solo ad una mera azione di esecuzione delle sentenze o di altro provvedimento ad esse equiparabile, presenta profili affatto diversi, non solo quanto al «presupposto» (cioè in ordine al provvedimento per il quale si chieda che il giudice disponga ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto stesso della domanda, la quale può essere rivolta ad ottenere:a) l’«attuazione» delle sentenze o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte dei Conti (Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003 n. 2823; Sez. VI, ord. 24 giugno 2003 n. 2634) e del giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di giudici diversi dal giudice amministrativo «per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza» (art. 112, comma 2). E già in questa ipotesi tradizionale, l’ampiezza della previsione normativa impedisce – come è noto - di ricondurre la natura dell’azione a quella di una mera azione di esecuzione;b) la condanna «a pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza» art. 112, comma 3). In questa ipotesi, l’azione è evidentemente attratta dal giudizio di ottemperanza, poiché le somme ulteriori, al pagamento delle quali l’amministrazione è tenuta, hanno natura di obbligazioni accessorie di obbligazioni principali, in ordine alle quali si è già pronunciata una precedente sentenza o provvedimento equiparato);c) il «risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato» (art. 112, comma 3). In questo caso l’azione, che viene definita risarcitoria dallo stesso Codice, non è rivolta all’ «attuazione» di una precedente sentenza o provvedimento equiparato, ma trova in questi ultimi solo il presupposto. Si tratta, a tutta evidenza, di una azione nuova, esperibile proprio perché è l’ottemperanza stessa che non è realizzata, e in ordine alla quale la competenza a giudicare è, per evidenti ragioni di economia processuale e quindi di effettività della tutela giurisdizionale (a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio), attribuita al giudice dell’ottemperanza;d) la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4), e ciò sia al fine di ottenere – eliminato il diaframma opposto dal provvedimento dichiarato nullo – l’attuazione della sentenza passata in giudicato, sia per ottenere il risarcimento dei danni connessi alla predetta violazione o elusione del giudicato (art. 112, comma 3, ult. parte); danni questi ultimi che possono derivare sia dalla ritardata attuazione del giudicato (per avere invece l’amministrazione emanato un provvedimento nullo), sia direttamente (e distintamente) da tale provvedimento, una volta verificatone l’effetto causativo di danno". e) a tale quadro, va aggiunto il ricorso, ex art. 112, comma 5, proposto al fine di «ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza»: "anche questo non presenta caratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso sostanziale, al novero delle azioni di ottemperanza. Ciò emerge anzitutto dalla stessa terminologia usata dal legislatore, il quale - lungi dall’affermare che è l’ «azione di ottemperanza» ad essere utilizzabile in questi casi - afferma che è «il ricorso» introduttivo del giudizio di ottemperanza (cioè l’atto processuale) ad essere a tali fini utilizzabile, ma risulta anche chiaro dalla circostanza che, a differenza dell’azione di ottemperanza, che è naturalmente esperita dalla parte già vittoriosa nel giudizio di cognizione o in altra procedura a questa equiparabile, in questo caso il ricorso appare proponibile dalla parte soccombente (e segnatamente dalla Pubblica Amministrazione soccombente nel precedente giudizio)". L'Adunanza Plenaria prosegue che "l’esame della disciplina processuale dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 ss. cpa (ai quali occorre doverosamente aggiungere l’art. 31, co. 4), porta ad affermare la attuale polisemicità del «giudizio» e dell’ «azione di ottemperanza», dato che, sotto tale unica definizione, si raccolgono azioni diverse, talune meramente esecutive, talaltre di chiara natura cognitoria, il cui comune denominatore è rappresentato dall’esistenza, quale presupposto, di una sentenza passata in giudicato, e la cui comune giustificazione è rappresentata dal dare concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale, tutelato dall’art. 24 Cost. Di conseguenza il giudice dell’ottemperanza, come identificato per il tramite dell’art. 113 cpa, deve essere attualmente considerato come il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto". Dimodoché in sede di giudizio di ottemperanza "occorre che la p.a. attivi una leale cooperazione per dare concreta attuazione alla pronuncia giurisdizionale anche e soprattutto alla luce del fatto che nell’attuale contesto ordinamentale la risposta del giudice amministrativo è caratterizzata da un assetto soggettivo, inteso come soddisfazione di una specifica pretesa. E se è vero che la sua soddisfazione non può prescindere dall’ottimale assetto di tutti gli interessi coinvolti ivi compresi quelli pubblici, è anche vero che ciò non può e non deve costituire un alibi per sottrarsi al doveroso rispetto del giudicato. Consegue da tutto ciò che la nuova operazione valutativa deve dimostrarsi il frutto della costatazione di una palese e grave erroneità del giudizio precedente e non sia, invece, l’espressione di una gestione – a dir poco – ondivaga e contraddittoria del potere e in quanto tale contrastante, nella prospettiva pubblicistica, con il principio costituzionale del buon andamento e, in quella privatistica, con i principi di correttezza e buona fede".

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