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Emanata la deliberazione CIVIT n. 50/2013 sulle «Linee guida per l’aggiornamento del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità 2014-2016». In particolare, si segnala l'allegato 1 recante la tabella con l'ELENCO DEGLI OBBLIGHI DI PUBBLICAZIONE VIGENTI sul sito internet dell'amministrazione.

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CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI, 30/7/2020 n.16457 A seguito di Ordinanza del TAR per il Lazio di declaratoria  di incompetenza territoriale  viene impugnato davanti al TAR per la Lombardia il provvedimento n. 6094 con cui sono state revocate le agevolazioni concesse alle due imprese ricorrenti. Dal provvedimento di revoca emerge  l’inammissibilità del progetto a seguito di indagini essendo le agevolazioni risultate troppo basse rispetto al costo totale del progetto. Per motivi di giurisdizione la situazione  viene posta all’attenzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione civile. Ex Art. 59 della l. n. 69/ 2009. La pronuncia in commento afferma che la  controversia promossa per ottenere l’annullamento del provvedimento di revoca di un finanziamento pubblico concerne una posizione di diritto soggettivo ( devoluta quindi alla giurisdizione di un giudice ordinario) tutte le volte in cui l’amministrazione abbia inteso far valere la decadenza del beneficiario dal contributo in ragione della mancata osservanza, da parte sua, di obblighi al cui adempimento la legge o il provvedimento condizionano l’erogazione, mentre riguarda una posizione di interesse legittimo ( con conseguente devoluzione al giudice amministrativo ) allorché la mancata erogazione del finanziamento, pur oggetto di specifico provvedimento di attribuzione, sia dipesa dall’esercizio di poteri di autotutela dell’amministrazione, la quale abbia inteso annullare il provvedimento stesso per i vizi originari di legittimità o revocarlo per contrasto originario con l’interesse pubblico. Nel caso di specie la revoca dell’agevolazione è stata disposta in modo controverso. L’originaria erogazione non discendeva direttamente dalla legge, ma presupponeva il potere della pubblica amministrazione, attribuito dalla legge, di riconoscere l’agevolazione all’esito di una valutazione comparativa tra gli interessati e sulla base della formulazione di un’apposita graduatoria tra possibili beneficiari. Rispetto all’erogazione dell’agevolazione il soggetto finanziato vantava quindi una posizione di interesse legittimo e tale posizione conserva,  laddove l’agevolazione venga revocata per un vizio originario afferente al provvedimento di erogazione , afferente cioè ad una fase in cui la sua posizione era di interesse legittimo ( e non di diritto soggettivo). Viene pertanto dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo, dinanzi al quale rimette le parti.       "- il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche deve essere attuato sulla base del generale criterio di riparto fondato sulla natura della situazione soggettiva azionata, con la conseguenza che: - sussiste sempre la giurisdizione del giudice ordinario quando il finanziamento è riconosciuto direttamente dalla legge, mentre alla Pubblica Amministrazione è demandato soltanto il compito di verificare l’effettiva esistenza dei relativi presupposti senza procedere ad alcun apprezzamento discrezionale circa l’an, il quid, il quomodo dell’erogazione (cfr. Cass. Sez. Un. 7 gennaio 2013, n. 150); - qualora la controversia attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo sul presupposto di un addotto inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione o dall’acclarato sviamento dei fondi acquisiti rispetto al programma finanziato, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, anche se si faccia questione di atti formalmente intitolati come revoca, decadenza o risoluzione, purché essi si fondino sull'inadempimento alle obbligazioni assunte di fronte alla concessione del contributo. In tal caso, infatti, il privato è titolare di un diritto soggettivo perfetto, come tale tutelabile dinanzi al giudice ordinario, attenendo la controversia alla fase esecutiva del rapporto di sovvenzione e all'inadempimento degli obblighi cui è subordinato il concreto provvedimento di attribuzione (cfr. Cass. Sez. Un., ord. 25 gennaio 2013, n. 1776); - viceversa, è configurabile una situazione soggettiva d’interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, solo ove la controversia riguardi una fase procedimentale precedente al provvedimento discrezionale attributivo del beneficio, oppure quando, a seguito della concessione del beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il pubblico interesse, ma non per inadempienze del beneficiario (Cass. Sez. Un. 24 gennaio 2013, n. 1710; Cons. Stato, Ad. Plen. 29 luglio 2013, n. 17)".     Il Consiglio di Stato, ad. plen., 29 luglio 2013, n. 17 ha definitivamente chiarito che "il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo deve essere attuato distinguendo le ipotesi in cui il contributo o la sovvenzione è riconosciuto direttamente dalla legge (e alla p.a. è demandato esclusivamente il controllo in ordine all'effettiva sussistenza dei presupposti puntualmente indicati dalla legge stessa ) da quelle in cui la legge attribuisce invece alla p.a. il potere di riconoscere l'ausilio previa valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati in relazione all'interesse pubblico primario apprezzando discrezionalmente l'an, il quid ed il quomodo dell'erogazione", sicché il medesimo criterio di riparto (natura discrezionale o meno del provvedimento erogativo) deve essere utilizzato per individuare la giurisdizione anche nel caso in cui s'intenda contestare il provvedimento di revoca del contributo erogato.   Secondo il TAR Liguria, sezione II, 7 febbraio, 2014, n. 229  deve prevalere un’interpretazione sostanzialistica della lex specialis quando il bando non imponga a pena di esclusione di fornirne la prova documentale del possesso di un requisito e l’Amministrazione sia a conoscenza della sua effettiva sussistenza in capo all’impresa esclusa. Nel caso di specie, l'impresa ricorrente, beneficiaria di finanziamenti comunitari “obiettivo 2” dal 2003, avanzava nel 2009 domanda di assegnazione, ma la stessa veniva rigettata sulla base ad una formalistica interpretazione del rinnovato bando regionale. Secondo l’Ente convenuto, l’impresa non aveva fornito prova di essere un soggetto “tecnicamente organizzato”, in quanto mancava, fra i documenti allegati alla domanda di contributi, la prova della disponibilità della struttura operativa iscritta al registro delle imprese. Il TAR ha ritenuto il diniego opposto illegittimo per diverse ragioni. Nel rilevare come non esista, nel bando in questione, una norma che preveda l’espresso obbligo di fornire tale prova documentale a pena di esclusione, il Tribunale ricorda che, secondo un principio giurisprudenziale ormai consolidato, le cause poste a pena di esclusione devono essere chiare e puntuali e, nell’eventuale incertezza delle disposizioni del bando, deve essere fornita l’interpretazione meno restrittiva. L’Amministrazione aveva in ogni caso a propria disposizione, secondo il TAR, documenti atti a comprovare, fino a prova contraria, il possesso del requisito. Innanzi tutto, la risposta al preavviso di rigetto, che, in quanto dichiarazione sostitutiva di certificazione ex art. 46 del DPR n. 445/2000, deve ritenersi veritiera in assenza di prova contraria. Nessuna violazione di par condicio, poi, si pone in essere accogliendo un’integrazione documentale in sede di preavviso di rigetto, quando essa faccia seguito ad uno specifico rilievo dell’Amministrazione e non sia valsa a sanare la mancanza di un documento richiesto dal bando a pena di inammissibilità. Anche la visura camerale, in ogni caso, fornisce la prova della disponibilità della sede operativa iscritta nel registro fino a prova contraria;  sul punto, il TAR osserva come la sede risulti immutata rispetto all’epoca del precedente finanziamento e ricorda che l’iscrizione al registro delle imprese è una forma di pubblicità dichiarativa che tutela l’affidamento dei terzi in merito alla veridicità ed attualità dei dati pubblicizzati, sia in riferimento all’avvio, che con riguardo alle modifiche intervenute nella vita dell’impresa.

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Cons. Stato, Sez. I, Ordinanza n. 2631/2013 - La I Sezione del Consiglio di Stato, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di un vincolo alberghiero imposto su una struttura esistente in Varazze, ha disposto la rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della L.R. 7 febbraio 2008, n. 1 in violazione dell’art. 41 e 42 della Costituzione. La I Sezione del Supremo Consesso ha affermato che “relativamente alla violazione dell’art. 42 della Costituzione, pare alla Sezione che l’imposizione di un vincolo di natura economica, qual è appunto quello di destinazione alberghiera, violi il diritto del proprietario di decidere l’utilizzazione dell’immobile. Quanto all’art. 41, primo comma, della Costituzione, che ha trovato sostegno indiscusso nella regola di libertà di concorrenza sancita dal Trattato di Roma del 1957, art. 3, lett. g), non sembra che la legge possa imporre al privato di svolgere una determinata attività d’impresa, ovvero che è lo stesso, di utilizzare un proprio immobile per esercitarvi obbligatoriamente, o farvi svolgere, una determinata attività d’impresa. […] L’ordinamento prevede bensì che si possa, segnatamente con la disciplina urbanistica e con le destinazioni di zona (art. 7 della legge urbanistica 17 agosto 1942 n. 1150), per ragioni di ordinato svolgimento della vita associata negli agglomerati urbani o per altre ragioni di pubblico interesse, vietare o sottoporre ad autorizzazione lo svolgimento di determinate attività in certi immobili; quindi si possa, per esempio, consentire lo svolgimento di attività produttive solo in determinate aree agli esercizi commerciali, così incidendo, in certa misura, sia sul diritto di proprietà sia sul diritto di impresa, nel senso che al proprietario di un immobile può esser vietato di svolgervi, farvi e lasciarvi svolgere una determinata attività. Ma una cosa è vietare, in via generale o previa valutazione dell’idoneità dell’immobile, di svolgere nell’immobile stesso una determinata attività; altra cosa è, all’opposto, obbligare, con un “vincolo” appunto, il proprietario dell’immobile di svolgervi o lasciarvi svolgere una determinata attività di impresa, introducendo così nell’ordinamento una sorta di servitù di cose e persone insieme”. Quanto alle argomentazioni addotte dalla Regione, a difesa dell’imposizione del vincolo in quanto finalizzato ad ostacolare il mercato immobiliare residenziale ed a garantire la continuazione dell’attività alberghiera, il parere della Sezione I rileva come “è la domanda di mercato (ossia la libertà dei singoli) a indirizzare l’offerta dei beni e servizi (e con essa l’utilizzazione dei beni destinabili alla relativa produzione), e non dev’essere la pubblica autorità a indirizzarla (nella specie, stando alle difese della Regione, per contrastare le tendenze della domanda)”. Finalmente la dibattuta questione dell’imposizione del vincolo alberghiero (precostituito e generalizzato) introdotto in Liguria dalla L.R. n. 1/2008 viene posto all’attenzione della Consulta che dovrà pronunciarsi sulla conformità della predetta legge ai principi costituzionali di libertà di impresa e di tutela della proprietà privata.

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Disapplicazione normativa interna Con la sentenza 25 giugno 2018, n. 9, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato pone fine all'annosa querelle avente ad oggetto la nomina di manager stranieri a direttori dei poli museali italiani. La pronuncia consegue alla disapplicazione del diritto interno per contrasto con previsioni del TFUE. L’Adunanza Plenaria ha infatti ritenuto che l’art. 1, comma 1,  d.P.C.M. n. 174 del 1994 e l’art. 2, comma 1, d.P.R. n. 487 del 1994 risultano in contrasto con il par. 2 dell’art. 45 del TFUE laddove impediscono in assoluto ai cittadini di altri Stati membri dell’UE di assumere i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato e laddove non consentono una verifica in concreto circa la sussistenza o meno del prevalente esercizio di funzioni autoritative in relazione alla singola posizione dirigenziale, e non possono trovare quindi applicazione. Si ricorda, per completezza, che il citato art. 45 TFUE recita: “1. La libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione è assicurata. 2. Essa implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro. 3. Fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, essa importa il diritto: a) di rispondere a offerte di lavoro effettive; b) di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri; c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un'attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l'occupazione dei lavoratori nazionali; d) di rimanere, a condizioni che costituiranno l'oggetto di regolamenti stabiliti dalla Commissione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego. 4. Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione".   L’art. 1, c. 1, del DPCM n. 174/1994, prevede che  “I posti delle amministrazioni pubbliche per l'accesso  ai  quali non puo' prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana sono i seguenti:     a) i posti dei livelli dirigenziali delle  amministrazioni  dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, individuati ai sensi  dell'art. 6 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, nonche' i posti dei corrispondenti livelli delle altre pubbliche amministrazioni;     b) i posti con funzioni di vertice amministrativo delle strutture periferiche delle amministrazioni pubbliche  dello  Stato,  anche  ad ordinamento  autonomo,  degli  enti  pubblici  non  economici,  delle province e dei comuni nonche' delle regioni e della Banca d'Italia;     c) i posti dei magistrati ordinari,  amministrativi,  militari  e contabili, nonche' i posti degli avvocati e procuratori dello Stato; (( d) i posti dei ruoli civili e militari  della  Presidenza  del Consiglio dei  Ministri,  del  Ministero  degli  affari  esteri,  del Ministero dell'interno, del Ministero  di  grazia  e  giustizia,  del Ministero della difesa e del Ministero  delle  finanze  e  del  Corpo forestale dello  Stato,  eccettuati  i  posti  a  cui  si  accede  in applicazione dell'art. 16 della legge 28 febbraio 1987, n. 56”.   A sua volta l’art. 2, c. 1, DPR n. 487/1994, dispone, per quanto di interesse, che “Possono  accedere  agli   impieghi   civili   delle   pubbliche amministrazioni  i  soggetti  che  posseggono  i  seguenti  requisiti generali: 1) cittadinanza italiana. Tale requisito non e' richiesto  per  i soggetti appartenenti alla Unione europea, fatte salve  le  eccezioni di cui al  decreto  del  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri  7 febbraio 1994, n. 174”.   * Interessante pronunciamento della sentenza C.G.U.E. 21 dicembre 2016, C-272/15 che ha chiarito come il diritto dell'Unione garantisca la parità di trattamento soltanto tra Paesi ed entità dell'Unione stessa e non la parità di trattamento tra Paesi terzi, concludendo, pertanto, che "l'esame della decisione n. 377/2013 alla luce del principio della parità di trattamento non rivela alcun elemento che possa inficiare la validità di tale decisione, nella parte in cui la deroga temporanea, prevista dall’articolo 1 della decisione stessa, agli obblighi dettati dall’articolo 12, paragrafo 2 bis, e dall’articolo 16 della direttiva 2003/87, per quanto riguarda la restituzione delle quote di emissioni a effetto serra per i voli effettuati nel 2012 tra gli Stati membri dell’Unione e la maggior parte dei paesi terzi, non si applica, in particolare, ai voli da e verso gli aeroporti situati in Svizzera".   *   T.A.R. Lazio-Roma, Sez. III ter, 20 febbraio 2015, n. 2896 - Con sentenza del 4 settembre 2014, pronunciata nelle cause riunite da C 184/13 a C 187/13, C 194/13, C 195/13 e C 208/13, la Corte di Giustizia ha stabilito che “l’art. 101 TFUE, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE, deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale, quale quella controversa nei procedimenti principali, in forza della quale il prezzo dei servizi di autotrasporto delle merci per conto di terzi non può essere inferiore a costi minimi d’esercizio determinati da un organismo composto principalmente da rappresentanti degli operatori economici interessati”. Nella motivazione la Corte ha evidenziato che la riscontrata violazione – da parte dell’art. 83 bis d. lgs. n. 112/2008 - del principio di concorrenza, come tutelato dagli artt. 101 TFUE e 4 paragrafo 3 TUE, è nella fattispecie riconducibile: a) sia alla particolare composizione e modalità di funzionamento dell’Osservatorio e all’assenza di criteri legislativi idonei a garantire che i componenti dell’organo operino nel rispetto dell’interesse pubblico che la legge dichiara di perseguire di talchè “l’Osservatorio è da considerarsi un’associazione di imprese ai sensi dell’articolo 101 TFUE quando adotta decisioni che determinano i costi minimi d’esercizio per l’autotrasporto quali quelle in parola” (paragrafo 41 della motivazione); b) sia alla predeterminazione dei costi, operata dall’art. 83 bis d. l. n. 112/2008, che concretizza una illegittima “determinazione orizzontale di tariffe imposte” (paragrafo 43 della motivazione) in quanto non giustificata da un motivo legittimo; la disciplina nazionale, infatti, è inidonea ai fini del perseguimento della tutela della sicurezza stradale assunto dal legislatore nazionale quale dichiarata finalità della predeterminazione dei costi dell’autotrasporto. In relazione a tale ultimo profilo, la Corte ha, in particolare rilevato che: “43 … la determinazione di costi minimi d’esercizio, resi obbligatori da una normativa nazionale quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali, impedendo alle imprese di fissare tariffe inferiori a tali costi, equivale alla determinazione orizzontale di tariffe minime imposte. 44 Per quanto attiene al pregiudizio agli scambi intracomunitari, basti ricordare che un’intesa che si estenda a tutto il territorio di uno Stato membro ha, per sua natura, l’effetto di consolidare la compartimentazione nazionale, ostacolando così l’integrazione economica voluta dal Trattato FUE (v. sentenze Commissione/Italia, EU:C:1998:303, punto 48, nonché Manfredi e a., da C 295/04 a C 298/04, EU:C:2006:461, punto 45). 45 Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre dichiarare che la determinazione dei costi minimi d’esercizio per l’autotrasporto, resa obbligatoria da una normativa nazionale quale quella controversa nei procedimenti principali, è idonea a restringere il gioco della concorrenza nel mercato interno. 46 Occorre infine, tuttavia, rilevare che la normativa controversa nei procedimenti principali che rende obbligatoria una decisione di un’associazione d’imprese avente per oggetto o per effetto di restringere la concorrenza o la libertà d’azione delle parti o di una di esse non ricade necessariamente sotto il divieto sancito dal combinato disposto dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE e dell’articolo 4, paragrafo 3, TUE. 47 Infatti, ai fini dell’applicazione di tali disposizioni a un caso di specie, occorre anzitutto tenere in considerazione il contesto globale nel quale la decisione controversa dell’associazione di imprese in questione è stata adottata o dispiega i suoi effetti e, in particolare, i suoi obiettivi. Occorre poi verificare se gli effetti restrittivi della concorrenza che ne derivano ineriscano al perseguimento di detti obiettivi (v. sentenze Wouters e a., C 309/99, EU:C:2002:98, punto 97, nonché Consiglio nazionale dei geologi e Autorità garante della concorrenza e del mercato, C 136/12, EU:C:2013:489, punto 53). 48 Ciò premesso, si deve verificare se le restrizioni così imposte dalle norme di cui trattasi nei procedimenti principali si limitino a quanto necessario al conseguimento di obiettivi legittimi (v., in tal senso, sentenze Meca Medina e Majcen/Commissione, C 519/04 P, EU:C:2006:492, punto 47, nonché Consiglio nazionale dei geologi e Autorità garante della concorrenza e del mercato, EU:C:2013:489, punto 54). 49 Tuttavia, senza che occorra valutare se la giurisprudenza citata ai punti 47 e 48 della presente sentenza si applichi a una normativa nazionale che prescrive un accordo orizzontale sui prezzi, è sufficiente dichiarare che la normativa di cui trattasi nei procedimenti principali non può, comunque, essere giustificata da un obiettivo legittimo. 50 A norma dell’articolo 83 bis, comma 4, del decreto legge n. 112/2008 modificato, la determinazione dei costi minimi d’esercizio mira a tutelare, in particolare, la sicurezza stradale. 51 Anche se non si può negare che la tutela della sicurezza stradale possa costituire un obiettivo legittimo, la determinazione dei costi minimi d’esercizio non risulta tuttavia idonea né direttamente né indirettamente a garantirne il conseguimento. 52 A tale riguardo va rilevato che la normativa di cui trattasi nei procedimenti principali si limita a prendere in considerazione, in maniera generica, la tutela della sicurezza stradale, senza stabilire alcun nesso tra i costi minimi d’esercizio e il rafforzamento della sicurezza stradale. 53 Inoltre, una normativa nazionale è idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo addotto solo se risponde realmente all’intento di raggiungerlo in modo coerente e sistematico (v. sentenze Hartlauer, C 169/07, EU:C:2009:141, punto 55, e Attanasio Group, C 384/08, EU:C:2010:133, punto 51). 54 Al riguardo occorre rilevare che, sebbene si reputi che il «costo minimo», ai sensi dell’articolo 83 bis del decreto legge n. 112/2008 modificato, rappresenti l’importo minimo oggettivamente determinato al di sotto del quale non sarebbe possibile adempiere gli obblighi imposti dalla normativa in materia di tutela della sicurezza stradale, la normativa di cui trattasi nei procedimenti principali prevede tuttavia delle deroghe. Così, in forza dell’articolo 83 bis, comma 4 quater, del decreto legge n. 112/2008 modificato, la determinazione del corrispettivo è rimessa all’autonomia negoziale delle parti ove le prestazioni di servizi di trasporto siano effettuate entro il limite di 100 chilometri giornalieri. Del pari, il comma 16 di detto articolo prevede la possibilità di derogare mediante accordi di settore al costo minimo fissato dall’Osservatorio.   55 Ad ogni buon conto, i provvedimenti in esame vanno al di là del necessario. Da un lato, non permettono al vettore di provare che esso, nonostante offra prezzi inferiori alle tariffe minime stabilite, si conformi pienamente alle disposizioni vigenti in materia di sicurezza (v., in tal senso, sentenze del 2 aprile 1998, Outokumpu, C 213/96, EU:C:1998:155, punto 39, nonché del 13 dicembre 2005, Marks & Spencer, C 446/03, EU:C:2005:763, punti da 54 a 56). 56 Dall’altro, esistono moltissime norme, comprese quelle del diritto dell’Unione, menzionate al punto 7 della presente sentenza, riguardanti specificamente la sicurezza stradale, che costituiscono misure più efficaci e meno restrittive, come le norme dell’Unione in materia di durata massima settimanale del lavoro, pause, riposi, lavoro notturno e controllo tecnico degli autoveicoli. La stretta osservanza di tali norme può garantire effettivamente il livello di sicurezza stradale adeguato. 57 Ne consegue che la determinazione dei costi minimi d’esercizio non può essere giustificata da un obiettivo legittimo”. La citata sentenza della Corte di Giustizia ha, pertanto, accertato il contrasto dell’art. 83 bis d. l. n. 112/2008 con l’art. 101 TFUE e la conseguente violazione del principio di concorrenza tutelato dalla disposizione comunitaria. Solo per esigenza di completezza, deve essere evidenziato che la disciplina dei costi del trasporto di merci su strada, in coerenza con le indicazioni provenienti dalla Corte di Giustizia, è stata liberalizzata per effetto della legge n. 190 del 2014. Questo Tribunale, pertanto, nel prendere doverosamente atto del contrasto tra norma interna e comunitaria, è obbligato, in virtù del principio di primazia del diritto comunitario, desumibile dal TFUE e dalla nostra Carta Costituzionale (artt. 11 e 117 Cost.), come interpretati dalla Corte Costituzionale (sentenze n. 168/1991, n. 113/1985 e n. 170/1984), a disapplicare l’art. 83 bis d.l. n. 112/2008 che costituisce la norma attributiva del potere in virtù del quale sono stati adottati gli atti impugnati nel presente giudizio. La constatata inapplicabilità dell’art. 83 bis d.l. n. 112/2008 induce il Tribunale a ritenere fondata la violazione del principio di concorrenza, di matrice comunitaria, prospettata nel ricorso. *   La CEDU con la sentenza, sez. II, 8 aprile 2014, n. 17120/09 (Dhahbi contro Italia), ha pronunciato un fondamentale principio ossia che i tribunali nazionali le cui decisioni non sono soggette a ricorso giurisdizionale di diritto interno, allorquando si rifiutano di cogliere una pregiudiziale eurounitaria sollevata da una delle parti in giudizio ai sensi dell'art. 267 TFUE sono tenuti a motivare il loro rifiuto dando conto dei motivi per cui ritengono che la questione non è pertinente o che la disposizione di diritto comunitario in questione è già stata interpretata dalla Corte di giustizia o che se la corretta applicazione del diritto comunitario non lascia spazio ad alcun ragionevole dubbio. *   Il Consiglio di Stato, sez. III, 27 marzo 2014, n. 1486 statuisce un principio molto importante per il nostro ordinamento ossia la possibilità per il Giudice (e, quindi, deve ritenersi in primis per l'Amministrazione) di disapplicare una norma di legge nazionale ove contrastante con il diritto eurounitario. La sentenza in disamina affronta la previsione dell'art. 1, commi 15 e 16 d.l. 6 luglio 2012 n. 95, cvt. in l. 7 agosto 2012 n. 135, che dispone la proroga ex lege delle convenzioni CONSIP in scadenza al 30.06.2013.   il Collegio reputa "che tale proroga contrasti con il diritto comunitario e, come correttamente affermato dalla sentenza impugnata, va disapplicato dal giudice nazionale secondo l’insegnamento della Corte di Giustizia e della Corte costituzionale. La normativa in parola viola, infatti, gli artt. 28 e 31, Dir 2004/18 CE, che precludono la possibilità di affidare contratti pubblici di servizi e forniture senza procedure di gara a evidenza pubblica. Il combinato disposto delle citate norme comunitarie impone agli Stati membri di aggiudicare gli appalti pubblici facendo ricorso vuoi alla procedura aperta o ristretta, vuoi, nelle circostanze specifiche espressamente previste all’art. 29 della direttiva 2004/18, al dialogo competitivo, vuoi ancora, nelle circostanze specifiche espressamente elencate agli artt. 30 e 31 della medesima direttiva, ad una procedura negoziata. L’aggiudicazione di appalti pubblici mediante altre procedure non è autorizzata dalla detta direttiva» (Corte di Giustizia CE, sez. III, 10 dicembre 2009, causa C-299/08, punto 29). E’ consentito di ricorrere ad una procedura negoziata, con o senza pubblicazione del bando di gara, solo nei casi espressamente individuati dagli artt. 30 e 31 della Direttiva. Nella fattispecie in questione il citato art. 31, comma 1, n. 4, lett. b) consente il rinnovo dell’affidamento ricorrendo alla procedura negoziata solo quando ricorrono le condizioni ivi indicate tra le quali rileva che la possibilità del rinnovo sia indicato «sin dall’avvio del confronto competitivo» e l’importo totale previsto per la prosecuzione sia individuato nel bando. Il rinnovo operato ex lege delle convenzioni della Consip si pone pertanto in violazione del diritto comunitario. Mutatis mutandis, si sta ripetendo la situazione di contrasto con l’ordinamento comunitario determinato dall’art. 6 , comma 2, ultimo periodo della legge 24 dicembre 1993, n. 537 che, ammettendo il rinnovo tacito dei contratti per la fornitura di beni e servizi della pubblica amministrazione delle pubbliche amministrazioni, determinò l’apertura di una procedura di infrazione nei confronti del nostro Paese, recata dal parere motivato della Commissione europea n.2003/2110 del 16 dicembre 2003, chiusasi a seguito dell’abrogazione della norma in parola ad opera dell’art. 23 della legge 18 aprile 2005". *   Importante decisione della CGUE 18.7.2013, C36/12, con la quale si chiariscono alcuni aspetti importanti in materia di obbligo di rinvio dei giudici nazionali alla Corte di Giustizia: - "qualora non esista alcun ricorso giurisdizionale avverso la decisione di un giudice nazionale, quest’ultimo è, in linea di principio, tenuto a rivolgersi alla Corte ai sensi dell’articolo 267, terzo comma, TFUE quando è chiamato a pronunciarsi su una questione di interpretazione del predetto Trattato (v. sentenza del 4 novembre 1997, Parfums Christian Dior, C‑337/95, Racc. pag. I‑6013, punto 26)" tale dovere sussiste e prescinde dal principio di ragionevole durata del processo; - i giudizi nazionali sfuggono a tale obbligo soltanto nel caso in cui la "questione di interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad essi se questa non è rilevante, vale a dire nel caso in cui la sua soluzione, qualunque essa sia, non possa in alcun modo influire sull’esito della controversia (sentenza del 6 ottobre 1982, Cilfit e a., 283/81, Racc. pag. 3415, punto 10)"; - "la determinazione e la formulazione delle questioni da sottoporre alla Corte spettano al giudice nazionale e le parti in causa nel procedimento principale non possono modificarne il tenore (v. sentenze del 14 aprile 2011, Vlaamse Dierenartsenvereniging e Janssens, C‑42/10, C‑45/10 e C‑57/10, Racc. pag. I‑2975, punto 43, nonché del 21 dicembre 2011, Danske Svineproducenter, C‑316/10, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 32)"; - le eventuali norme nazionali, abbiano esse natura sostanziale o processuale, vanno disapplicate allorché contrastino con i succitati principi.

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Il T.A.R. Liguria, Sez. II, 29.05.2014, n. 835 chiarisce, abbandonando ogni vuoto formalismo in merito alle dichiarazioni personali ex art. 38 d.lgs. n. 163/06 già anteriormente all'entrata in vigore del comma 2-bis del detto articolo, che "si deve escludere che l’omessa dichiarazione da parte di uno dei due rappresentanti dell’odierna ricorrente costituisse, di per sé, circostanza sufficiente a determinare l’esclusione dalla gara"   Il T.A.R. Liguria, Sez. II, 21.03.2014, n. 453 ha acclarato che la verifica dei requisiti di cui all'art. 38, comma 1, lett. c) concerne soltanto i soci persone fisiche poiché "Secondo la lettera dell’art. 38, comma 1, lett. c), del codice dei contratti pubblici, l’obbligo dichiarativo (che, secondo l’impostazione fatta propria dall’Adunanza plenaria, riguarda anche i soggetti dell’impresa cedente) riguarda, nel caso di società di capitali, gli amministratori muniti di potere di rappresentanza, il direttore tecnico, il socio unico persona fisica ovvero il “socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci”. La disposizione legislativa non chiarisce se, nell’ultima ipotesi, l’accertamento dell’insussistenza di cause di esclusione e il connesso onere dichiarativo debbano intendersi circoscritti al socio persona fisica ovvero riguardino anche i soci persone giuridiche. Il Collegio condivide e fa propria, a questo riguardo, l’interpretazione suggerita dall’Autorità di vigilanza, con la determinazione n. 1 del 16 maggio 2012, secondo cui la prima soluzione si impone “in coerenza con la ratio sottesa alle scelte del legislatore” in quanto, “diversamente argomentando, risulterebbe del tutto illogico limitare l’accertamento de quo alla sola persona fisica nel caso di socio unico ed estendere, invece, l’accertamento alle persone giuridiche nel caso di società con due o tre soci, ove il potere del socio di maggioranza, nella compagine sociale, è sicuramente minore rispetto a quello detenuto dal socio unico”".   L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 6 novembre 2013, n. 24 chiarisce i contorni degli obblighi dichiarativi previsti dalle lett. b), c) e m-ter) dell'art. 38 d.lgs. n. 163/06 per l'individuazione dei soci tenuti a presentare la dichiarazione per le società con due o tre soci acclarando che: - nel caso di società con due soci al 50% l'obbligo dichiarativo spetti ad entrambi; - nel caso di società con tre soci, soltanto nel caso in cui uno di essi abbia una quota partecipativa pari o superiore al 50%. Ecco la parte di più pregnante della motivazione "Riguardo all’espressione letterale questo Consiglio ha già precisato che il riferimento al «socio» e non «ai soci» di maggioranza non è dirimente poiché «l'impiego del singolare non è decisivo, potendosi esso spiegare in funzione della portata dell'obbligo dichiarativo, che fa evidentemente capo al singolo esponente societario, non senza trascurare che la formulazione della norma non reca la specificazione che deve trattarsi di maggioranza assoluta» (Cons. Stato, sez. V, 30 agosto 2012, n. 4654). Per risolvere il dubbio è quindi necessario basarsi sulla finalità della normativa che, come detto, è quella di assicurare che non partecipino alle gare, né stipulino contratti con le amministrazioni pubbliche, società di capitali con due o tre soci per le quali non siano attestati i previsti requisiti di idoneità morale in capo ai soci aventi un potere necessariamente condizionante le decisioni di gestione della società; dovendosi accedere ad un’interpretazione teleologica delle disposizioni de qua che, senza fermarsi al dato meramente letterale, si armonizzi con la ratio specifica della normativa sugli appalti pubblici, per la quale è ostativo il mancato possesso dei requisiti morali da parte di soci idonei a influenzare, in termini decisivi e ineludibili, le decisioni societarie. 9.2. Un socio ha un tale potere quando per adottare le decisioni non si può prescindere dal suo apporto, assumendo di conseguenza questo potere efficacia determinante non soltanto in negativo, in funzione di veto, ma anche in positivo, in funzione di codeterminazione, poiché il socio che ha il potere di interdire l’adozione di una decisione è anche quello che deve concorrere perché sia adottata. Questa situazione si riscontra nel caso di due soci al 50% poiché nessuna decisione può essere presa se uno dei due è contrario mentre entrambi devono concordare su ciascuna decisione. Ciò rilevato risulterebbe contrastante con la ratio della normativa che nessuno dei due soci provveda alle dichiarazioni richieste dalla legge necessarie per il controllo dell’idoneità morale della società, pur potendo ciascuno dei due condizionare, da solo, le decisioni societarie, dovendosi quindi concludere che entrambi i soci devono rendere le dichiarazioni prescritte. 9.3. Nella situazione di una società con tre soci la conclusione è diversa a seconda che nessuno dei tre soci partecipi al 50% ovvero ve ne sia uno titolare di tale partecipazione. Nel primo caso la percentuale della partecipazione di ciascun socio è variabile secondo le diverse situazioni concrete inclusa l’ipotesi che un socio sia titolare del 49% e gli altri due concorrano, con la propria partecipazione, a raggiungere il restante 51%. Ne consegue che nessun socio ha potere determinante poiché ognuno può essere sostituito da uno degli altri due per raggiungere la maggioranza decisionale; ciascun socio può perciò concorrere ad adottare la decisione ma non è mai esclusivamente e sempre da solo determinante, poiché se uno dei tre soci è contrario a una decisione questa può essere comunque assunta per accordo tra gli altri due, potendo ogni socio accordarsi con ciascuno degli altri in quanto non costretto a consentire con uno solo di essi data la ripartizione del capitale sociale (cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 25 luglio 2013, n. 3963). Nessuno dei soci ha perciò l’obbligo delle dichiarazioni poiché nessuno esercita un potere decisionale condizionante in quanto imprescindibile, tale perciò da farne qualificare la relativa posizione sostanziale come quella di un socio di maggioranza; il concorso alle decisioni di volta in volta possibile da parte di ciascun socio non autorizza infatti la conclusione che ognuno di essi debba rendere le previste dichiarazioni, poiché la latitudine interpretativa consentita dalla norma, che comunque si riferisce al «socio di maggioranza», non è tale da giustificare l’obbligo delle dichiarazioni per il socio che non sia di maggioranza neanche nel significato sostanziale di cui si è detto. Neppure varrebbe perciò, contro quanto esposto, affermare che ciascun socio sarebbe, in tesi, dotato di potere condizionante in quanto nessuno di essi concordi con nessun altro sulle decisioni da adottare, dovendosi ritenere che la normativa sia riferita all’ipotesi fisiologica della gestione attiva della società, che esiste per operare, come appunto provato dal riferimento al «socio di maggioranza», cioè a un soggetto in posizione tale da condizionare la gestione nell’adozione di scelte operative. 9.4. Il caso della società con tre soci in cui uno sia partecipante al 50%, variando le partecipazioni degli altri due a concorrenza del restante 50%, risulta diverso sulla base delle medesime considerazioni sinora svolte. Il socio al 50% condiziona infatti, da solo, le decisioni sociali poiché in nessun caso possono essere adottate senza il suo consenso, che è quindi sempre necessario e imprescindibile mentre egli può accordarsi con l’uno o l’altro dei due restanti soci senza l’obbligo di farlo con uno solo di essi, nessuno dei quali esercita perciò un potere determinante. Ne consegue che nel caso in esame obbligato a rendere le previste dichiarazioni è soltanto il socio al 50% in quanto titolare di potere condizionante le decisioni della società. 9.5. Queste conclusioni, idonee a risolvere i dubbi interpretativi originati dalla normativa in modo coerente con la sua ratio, risultano anche adeguate allo scopo, sottolineato nell’ordinanza di rimessione, di evitare margini di discrezionalità e incertezza nell’azione amministrativa (e quindi per i concorrenti alle gare), essendo individuati preventivamente i soci obbligati alle dichiarazioni -i due soci al 50% e, se i soci sono tre, il socio al 50%, poiché in posizione determinante- oltre, pacificamente, il caso del socio che possegga la maggioranza economica del capitale (socio al più del 50%). 9.6. Esse appaiono anche coerenti con la normativa sulla tassatività e tipizzazione delle cause di esclusione. Infatti, da un lato, la mancata dichiarazione da parte dei soggetti sopra indicati si configura quale ragione di esclusione per “mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice” (art. 46, comma 1-bis, del Codice, aggiunto dall’art. 4, del d.l. n. 70 del 2011), ponendosi l’inadempimento in questione in contrasto con le dette prescrizioni secondo il loro fine sostanziale di salvaguardia delle garanzie di affidabilità dei contraenti, e, dall’altro, la precisazione di fattispecie certe preclude nell’applicazione della normativa l’individuazione di cause di esclusione non preordinate, in coerenza con la prescrizione della loro tipizzazione. 9.7. A quest’ultimo riguardo appare opportuno precisare che la certezza delle cause di esclusione non sarebbe conseguita se, nel caso di tre soci, fosse qualificato socio di maggioranza chi possegga la maggioranza relativa del capitale (da più del 33% a meno del 50%) poiché ritenuto, per ciò solo, capace di un’influenza dominante sulla società. Considerato infatti che le restanti partecipazioni sociali non sono diffuse ma concentrate negli altri due soci, il cui accordo è quindi agevole, il socio di maggioranza relativa potrà prevenire, o condizionare, la maggioranza decisionale contraria soltanto se la sua posizione è rafforzata da ulteriori fattori di influenza, da riscontrare di volta in volta in concreto alla luce di specifiche statuizioni o accordi societari; sulla scorta perciò di valutazioni amministrative complesse e opinabili, tali da ingenerare margini di incertezza sull’operatività delle cause di esclusione: rischio questo che non si profila invece riguardo al socio al 50%, titolare effettivo, per quanto sopra detto, di una posizione di certo determinante apprezzabile sulla base di un dato oggettivo e incontrovertibile. 9.8. In riferimento specificamente alle s.r.l. le dette conclusioni risultano infine in linea con la nuova normativa posta con il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 (Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative), e successive modifiche, che ha avvalorato l’elemento personale di tale tipo di società, rendendole le s.r.l. società a base personale con responsabilità limitata, e in cui è stabilito, per quanto qui più interessa, che l’assemblea dei soci è regolarmente costituita con la presenza di tanti soci che rappresentano almeno «la metà del capitale sociale e delibera a maggioranza assoluta» (art. 2479, bis, c.c., comma terzo), con la conseguenza che «il titolare di tale porzione del capitale sociale è in grado di assumere tutte le decisioni necessarie per il funzionamento della società» (Cons. Stato, sez. V, n. 4564 del 2012). 10. Riguardo ai quesiti posti con l’ordinanza di rimessione si afferma quindi il seguente principio di diritto: «L’espressione “socio di maggioranza” di cui alle lettere b) e c) dell’art. 38, comma 1, del d.lgs n. 163 del 2006, e alla lettera m-ter) del medesimo comma, si intende riferita, oltre che al socio titolare di più del 50% del capitale sociale, anche ai due soci titolari ciascuno del 50% del capitale o, se i soci sono tre, al socio titolare del 50%»"     L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 16 ottobre 2013, n. 23 per quanto concerne l'ambito di applicazione soggettivo delle dichiarazioni personali di cui alle lett. b) e c) dell'art. 38 d.lgs. n. 163/06 ha acclarato che: a) "con la locuzione di «amministratori muniti del potere di rappresentanza» l’art. 38 lett. c) ha inteso, quindi, riferirsi ad un’individuata cerchia di persone fisiche che, in base alla disciplina codicistica e dello statuto sociale, sono abilitate ad agire per l’attuazione degli scopi societari e che, proprio in tale veste qualificano in via ordinaria, quanto ai requisiti di moralità e di affidabilità, l’intera compagine sociale", per cui non sono tenuti alla presentazione delle dichiarazioni personali i cd. procuratori ad negotia, costituenti figure eventuali e non necessaria nell’assetto istituzionale delle società di capitali; b) "elemento differenziale fra gli amministratori ed i procuratori ad negotia è che ai primi è, di norma, affidata l’attività gestoria dell’impresa con potere di rappresentanza generale, mentre i secondi, oltre a derivare il proprio potere dalla volontà (di regola) degli amministratori, operano di massima nell’interesse societario per oggetto limitato e soggiacciono al controllo di chi ha conferito la procura"; c) ricadono, invece, nell'obbligo dichiarativo i "procuratori muniti di poteri decisionali di particolare ampiezza e riferiti ad una pluralità di oggetti così che, per sommatoria, possano configurarsi omologhi, se non di spessore superiore, a quelli che lo statuto assegna agli amministratori", poiché "in tal caso il procuratore speciale finisce col rientrare a pieno titolo nella figura cui si richiama l’art. 38, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 163 del 2006, poiché da un lato si connota come amministratore di fatto ai sensi dell’art. 2639, comma 1, cod. civ. e, d’altro lato, in forza della procura rilasciatagli, assomma in sé anche il ruolo di rappresentante della società, sia pure eventualmente solo per una serie determinata di atti"; - tuttavia limitatamente ai soggetti di cui alle precedente lett. c) "in aderenza a quanto affermato da questa medesima Adunanza plenaria con sentenza n. 10 del 2012 a proposito delle fattispecie relative alla cessione di azienda o di ramo di azienda, stante la non univocità della norma circa l’onere dichiarativo dell’impresa nelle ipotesi in esame (cui va aggiunta, per il passato, l’incertezza degli indirizzi giurisprudenziali) deve intendersi che, qualora la lex specialis non contenga al riguardo una specifica comminatoria di esclusione, quest’ultima potrà essere disposta non già per la mera omessa dichiarazione ex art. 38 cit., ma soltanto là dove sia effettivamente riscontrabile l’assenza del requisito in questione".

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T.A.R. Liguria, Sez. I, 29 marzo 2018, n. 271 – “Il tribunale amministrativo ritiene maggiormente in linea con la disciplina normativa vigente la tesi sostenuta sempre con la doglianza in rassegna, secondo cui sarebbe infondato un primo profilo di giustificazione addotto dalla regione, che attiene alla capacità ricettiva come requisito utile a giustificare la permanenza della destinazione alberghiera. Contesta in tale condivisibile modo la ricorrente che la dimensione della struttura non può costituire una preclusione in sé all’accoglimento della domanda, posto che il comma ottavo dell’art. 2 della legge regione Liguria 2008, n. 1 prevede espressamente la possibilità di ottenere il mutamento della destinazione d’uso degli immobili destinati ad albergo che hanno capienza superiore a cinquanta posti; ne consegue che il riferimento alla sola capacità ricettiva della struttura come elemento rilevante per negare lo svincolo avrebbe dovuto essere corroborato da altri riferimenti al riguardo. Tale passo della motivazione della deliberazione della giunta non resiste alla censura dedotta. Contesta ulteriormente l’interessata che il provvedimento non tiene conto della realtà economica rappresentata all’amministrazione civica, posto che la “…presenza di un’ampia area di pertinenza e della possibilità di eseguire lavori di riqualificazione al fine dell’adeguamento alle caratteristiche distributive, funzionali e dimensionali al livello degli standard qualitativi del settore alberghiero – tenuto conto dell’originaria classificazione a tre stelle….- ..” hanno indotto la regione Liguria a denegare il mutamento richiesto. Si tratta di un’argomentazione che soffre del difetto istruttorio denunciato, posto che le generiche allegazioni citate non sono in grado di contrastare efficacemente le argomentazioni spese dalla ricorrente con la domanda presentata all’amministrazione civica.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 8 marzo 2018, n. 208 - La prova relativa alla sussistenza dei requisiti di legge, in definitiva, incombe sul soggetto che richiede lo svincolo e, in difetto, resta integro il potere dell’amministrazione di negare il beneficio. Nel caso in esame, parte ricorrente non ha offerto alcuna indicazione relativa alle specifiche circostanze che, in ipotesi, si frapporrebbero alla realizzazione di un intervento di adeguamento della struttura, sicché risulta evidente il mancato assolvimento dell’onere probatorio a carico del privato.  In tale contesto, il riferimento al progetto di ristrutturazione dell’immobile presentato 12 anni orsono dalla stessa Società ricorrente è fatto ad abundantiam e, comunque, non può ritenersi illogico in quanto, non essendo state allegate circostanze eccezionali che possano aver definitivamente pregiudicato le possibilità di ricupero dell’immobile, l’intercorso lasso temporale non appare così ampio da modificare in senso radicale le condizioni dello stesso.  T.A.R. Liguria, Sez. I, 4 settembre 2017, n. 718 - un’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa regionale ligure in tema di vincolo alberghiero induce a ritenere che il concetto di “oggettiva impossibilità” comprenda anche gli interventi ipoteticamente suscettibili di attuazione, ma del tutto sproporzionati, quanto alle spese richieste, alle dimensioni della specifica attività alberghiera. Lo svincolo, in definitiva, deve ritenersi possibile anche nel caso in cui il superamento dei vincoli urbanistico-edilizi che gravano sulla struttura (la cui sussistenza, comunque, deve essere puntualmente comprovata dal privato), pur astrattamente possibile, richiederebbe investimenti non riassorbibili attraverso un’oculata gestione estesa nel tempo.  T.A.R. Liguria, Sez. I, 11 aprile 2017, n. 315 – “la norma regionale non attribuisce all’amministrazione la potestà di imporre termini ad un’attività d’impresa, la cui compressione deve derivare per Costituzione da un provvedimento che trova la giustificazione in una norma legislativa. Oltre a ciò è stata ravvisata nella determinazione regionale una sovrapposizione tra il piano urbanistico e quello edilizio, nel senso che la pianificazione del territorio non può intaccare le attività in corso all’atto della sua introduzione, salve le ipotesi di espropriazione. La vicenda edilizia di un immobile deriva invece dal titolo assentito, sì che in assenza di violazioni dello stesso non è possibile per una p.a. conculcare l’attività svolta in esso. Il tribunale deve condividere gli assunti riportati, attesa l’assenza di ogni attribuzione da parte della legge regionale del potere di imporre il termine in contestazione; oltre a ciò l’avvenuto svincolo del fabbricato dalla destinazione alberghiera non importa l’obbligo della cessazione dell’utilizzo alberghiero del bene, ma solo la facoltà”.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 6 ottobre 2016, n. 993 – “La legge va intesa nel senso che l’amministrazione comunale e quella regionale possono discrezionalmente ritenere impossibile lo svincolo di un albergo ancorché chiuso da gran tempo, con che giustifichino la persistenza dell’interesse pubblico alla protrazione dell’attività, avendo riguardo ai requisiti che la normativa ha introdotto al fine di consentire la dispensa dalla destinazione ricettiva. La possibilità normativamente prevista di elidere la previsione sull’utilizzo dell’immobile viene infatti considerata come un presupposto necessario perché sia considerata costituzionalmente legittima l’imposizione del vincolo qui contestato. Al riguardo questo tribunale amministrativo si è più volte soffermato nella considerazione (da ultimo sentenza 435 del 2016) delle condizioni che devono ricorrere perché sia compatibile con la Costituzione una limitazione così invasiva come quella imposta dalla legge alle proprietà degli alberghi. Uno dei presupposti individuati consiste nella temporaneità della situazione compressiva della libertà di utilizzo dei beni privati, ed in tal senso la norma ha previsto il procedimento aperto con la domanda disattesa dal comune di Rapallo per permettere ai soggetti che si ritengono ingiustamente incisi dagli atti del comune di rappresentare l’impossibilità o la manifesta scarsa convenienza economica della protrazione o della riassunzione dell’attività d’impresa; per ciò la legge è stata ritenuta costituzionalmente compatibile nella parte in cui esclude il rilievo della semplice volontà del proprietario fondiario sulla consistenza del patrimonio alberghiero che la regione Liguria ha ritenuto essenziale per la propria economia”.   Cons. Stato, Sez. I, 24 febbraio 2016, n. 471 - Vincolo Alberghiero, L.R. Liguria 1/2008. Improcedibilità del ricorso e inammissibilità della domanda risarcitoria "La ricorrente ha ottenuto il bene cui aspirava, ossia lo svincolo dalla destinazione alberghiera della struttura di proprietà. Ella, tuttavia, sostiene di avere ancora interesse al ricorso ed alla decisione della questione di legittimità costituzionale, in quanto la deliberazione del Consiglio comunale n. 11 del 2014, con cui il Comune di Varazze ha disposto lo svincolo dell’immobile di proprietà della società, non ha comportato l’annullamento della deliberazione della Giunta regionale che ha imposto, per lungo tempo, una destinazione d’uso su tale proprietà, e in ogni caso l’accoglimento del ricorso è utile al fine di ottenere il risarcimento del danno derivante dal provvedimento impugnato. Tale prospettazione non è fondata. Il provvedimento impugnato ha perso efficacia, perché la situazione che ne forma oggetto è disciplinata da un provvedimento successivo, emanato sulla base del quadro normativo sopravvenuto e da diversa autorità, alla quale la competenza è stata attribuita. Né sussiste un interesse risarcitorio azionabile con il ricorso straordinario al Capo dello Stato, che ha natura puramente “demolitoria”, ossia può solo annullare l’atto impugnato, sicché non solo la domanda risarcitoria proposta con il ricorso in esame è inammissibile, e neanche può trovare applicazione l’art. 34, comma 3 del codice del processo amministrativo approvato con decreto legislativo 2 luglio 2010 n. 104, che prevede una pronuncia meramente dichiarativa, non consentita nella presente sede.   Peraltro, la cognizione sull’illegittimità dell’atto, che potrà essere esperita in via incidentale in sede giurisdizionale qualora sia proposta domanda autonoma di risarcimento, non è inscindibilmente legata alla questione di legittimità costituzionale della legge sulla cui base è stato emanato l’atto impugnato”   Corte Cost., Ord. 6 ottobre 2015, n. 266 - Vincolo Alberghiero, L.R. Liguria 1/2008. Restituiti gli atti al Giudice a quo a seguito del mutato quadro normativo (L.R. Liguria n. 4/2013)  “che, a fronte di questo ius superveniens, spetta al Collegio rimettente la valutazione circa la perdurante rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione sollevata; che la giurisprudenza costituzionale richiamata dalla Domus Plan srl, secondo la quale lo ius superveniens non comporta la cessazione della materia del contendere, se la normativa impugnata ha trovato medio tempore applicazione, non è pertinente, perché riguarda il giudizio di legittimità costituzionale introdotto, dallo Stato o dalle Regioni, con ricorso in via principale; che, nel caso di specie, la questione di legittimità costituzionale è stata sollevata in via incidentale e, quindi, la sopravvenienza normativa richiede una valutazione di perdurante rilevanza, necessariamente rimessa al giudice a quo; che anche l’asserita rilevanza della questione ai fini della decisione sulla domanda di risarcimento del danno, proposta nel giudizio a quo dalla Domus Plan srl, deve essere valutata dal Collegio rimettente;   che, pertanto, va disposta la restituzione degli atti al giudice a quo, per una nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione, alla luce del mutato quadro normativo (ex multis, ordinanze n. 190, n. 53 e n. 20 del 2015)”.   FINALMENTE ALL’ATTENZIONE DELLA CONSULTA IL VINCOLO ALBERGHIERO DI CUI ALLA L.R. DELLA LIGURIA n. 1/2008   La I Sezione del Consiglio di Stato, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di un vincolo alberghiero imposto su una struttura esistente in Varazze, ha disposto la rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della L.R. 7 febbraio 2008, n. 1 in violazione dell’art. 41 e 42 della Costituzione. La I Sezione del Supremo Consesso ha affermato che “relativamente alla violazione dell’art. 42 della Costituzione, pare alla Sezione che l’imposizione di un vincolo di natura economica, qual è appunto quello di destinazione alberghiera, violi il diritto del proprietario di decidere l’utilizzazione dell’immobile. Quanto all’art. 41, primo comma, della Costituzione, che ha trovato sostegno indiscusso nella regola di libertà di concorrenza sancita dal Trattato di Roma del 1957, art. 3, lett. g), non sembra che la legge possa imporre al privato di svolgere una determinata attività d’impresa, ovvero che è lo stesso, di utilizzare un proprio immobile per esercitarvi obbligatoriamente, o farvi svolgere, una determinata attività d’impresa. […] L’ordinamento prevede bensì che si possa, segnatamente con la disciplina urbanistica e con le destinazioni di zona (art. 7 della legge urbanistica 17 agosto 1942 n. 1150), per ragioni di ordinato svolgimento della vita associata negli agglomerati urbani o per altre ragioni di pubblico interesse, vietare o sottoporre ad autorizzazione lo svolgimento di determinate attività in certi immobili; quindi si possa, per esempio, consentire lo svolgimento di attività produttive solo in determinate aree agli esercizi commerciali, così incidendo, in certa misura, sia sul diritto di proprietà sia sul diritto di impresa, nel senso che al proprietario di un immobile può esser vietato di svolgervi, farvi e lasciarvi svolgere una determinata attività. Ma una cosa è vietare, in via generale o previa valutazione dell’idoneità dell’immobile, di svolgere nell’immobile stesso una determinata attività; altra cosa è, all’opposto, obbligare, con un “vincolo” appunto, il proprietario dell’immobile di svolgervi o lasciarvi svolgere una determinata attività di impresa, introducendo così nell’ordinamento una sorta di servitù di cose e persone insieme”. Quanto alle argomentazioni addotte dalla Regione, a difesa dell’imposizione del vincolo in quanto finalizzato ad ostacolare il mercato immobiliare residenziale ed a garantire la continuazione dell’attività alberghiera, il parere della Sezione I rileva come “è la domanda di mercato (ossia la libertà dei singoli) a indirizzare l’offerta dei beni e servizi (e con essa l’utilizzazione dei beni destinabili alla relativa produzione), e non dev’essere la pubblica autorità a indirizzarla (nella specie, stando alle difese della Regione, per contrastare le tendenze della domanda)”. Finalmente la dibattuta questione dell’imposizione del vincolo alberghiero (precostituito e generalizzato) introdotto in Liguria dalla L.R. n. 1/2008 viene posto all’attenzione della Consulta che dovrà pronunciarsi sulla conformità della predetta legge ai principi costituzionali di libertà di impresa e di tutela della proprietà privata.

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L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 22 ottobre 2019, n. 10 interviene ancora sull'annoso problema della responsabilità in capo all'acquirente di un terreno da bonificare non responsabile dell'inquinamento stesso, sacendo il seguente principio di diritto: "la bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento".   Pubblicato sulla G.U. n. 262 dell'11.11.2014 il d.l. 11.11.2014, n. 165 recante "Disposizioni urgenti di correzione a  recenti  norme  in  materia  di bonifica  e  messa  in  sicurezza  di  siti  contaminati   e   misure finanziarie relative ad enti territoriali", il quale stabilisce principalmente che "Nei siti inquinati, nei quali sono incorso o non sono ancora avviate attivita' di messa in sicurezza e  dibonifica, possono essere  realizzati  interventi  e  opere  richiestidalla normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, di manutenzioneordinaria e straordinaria  di  impianti  e  infrastrutture,  compresiadeguamenti alle prescrizioni autorizzative,  nonche'  opere  linearinecessarie per l'esercizio di impianti e forniture di servizi e, piu'in generale, altre opere lineari di pubblico interesse  a  condizioneche detti interventi e opere siano  realizzati  secondo  modalita'  etecniche che non pregiudicano ne' interferiscono con il completamentoe l'esecuzione della bonifica, ne' determinano rischi per  la  salutedei lavoratori e degli altri fruitori dell'area".   L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 13 novembre 2013 ha sottoposto alla CGUE il seguente quesito pregiudiziale "se i princìpi dell’Unione europea in materia  ambientale  sanciti  dall’art.  191,  paragrafo  2,  del  Trattato  sul  funzionamento dell’Unione europea e dalla direttiva 2004/35/U.e. del 21 aprile 2004 (articoli 1 ed 8 n. 3; 13° e 24°  considerando)  –  in  particolare,  il  principio  per  cui  «chi  inquina,  paga»,  il principio  di  precauzione,  il  principio  dell’azione  preventiva, il principio, della correzione prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente – ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245 e 253 del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e d’impossibilità d’individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa d’imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza  d’emergenza e bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica". Sarebbe, interessante, che la CGUE verifichi che la legittimità, rispetto al principio di «chi inquina, paga» se sia compatibile anche la semplice condanna ad una sanzione pecuniaria comminata nei confronti di chi non abbia avuto alcuna responsabilità nell'inquinamento dell'area né abbia avuto consapevolezza dell'inquinamento al momento  dell'acquisizione della stessa.

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Il Consiglio di Stato, con sentenza della Quinta Sezione, 29/10/2013 n. 5213, ha rimesso alla Corte di Giustizia dell'U.E. la questione pregiudiziale in ordine alla compatibilità dell’art. 64 del D.P.R. n. 207/2010 (vale a dire il "Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto legislativo 12 aprile 2006 n. 163, recante «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE»") con gli articoli 49 e 56 Trattato di funzionamento dell’Unione Europea e con gli artt. 14 e 16 della direttiva 2006/123/CE.   In particolare, con la sentenza in rassegna il Consiglio di Stato ha sottoposto alla Corte di Giustizia dell'U.E. i seguenti quesiti: 1) "se i principi del Trattato sulla libertà di stabilimento (art. 49 TFUE) e sulla libera prestazione di servizi (art. 56 TFUE), nonché quelli di cui alla direttiva 2006/123/CE, ostino alla adozione ed applicazione di una normativa nazionale che sancisce che per le SOA, costituite nella forma delle società per azioni, “la sede legale deve essere nel territorio della Repubblica”"; 2) "se la deroga di cui all'art. 51 TFUE debba essere interpretata nel senso di ricomprendere una attività come quella di attestazione svolta da organismi di diritto privato, i quali: per un verso, devono essere costituiti nella forma delle società per azioni ed operano in un mercato concorrenziale; per altro verso, partecipano dell’esercizio di pubblici poteri e, per questo, sono sottoposti ad autorizzazione e a stringenti controlli da parte dell’Autorità di vigilanza".

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Sentenza TAR Liguria, Sez. II, 30.6.2016, n. 807 -La procedura di mobilità indetta in applicazione dell’art. 30 del D. Lgs. n. 165/2001, che disciplina il trasferimento diretto (id est, mediante cessione del contratto di lavoro) di personale tra amministrazioni diverse mediante mobilità, è propedeutica ai sensi dei commi 2 e 2-bis al reclutamento di nuovo personale mediante concorso pubblico. In materia di trasferimento per mobilità assume rilievo la disposizione di cui all’art. 35 comma 5-bis del D. Lgs. n. 165/2001, aggiunto dall'art. 1, comma 230, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, a mente della quale “i vincitori dei concorsi devono permanere nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni. La presente disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi”. Si tratta di una disposizione espressamente inderogabile ed a carattere imperativo (cfr., sul punto, anche l’art. 2 comma 2 del D. Lgs. n. 165/2001) che – come tale - si impone a tutte le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 comma 2 del medesimo D. Lgs. n. 165/2001, ivi comprese – per quanto qui interessa – “le amministrazioni, le aziende e gli enti del servizio sanitario nazionale”. In assenza di una specifica norma regionale che esenti espressamente le aziende sanitarie liguri dall’applicazione dell’art. 35 comma 5-bis del D. Lgs. n. 165/2001, la norma si impone anche agli atti organizzativi emanati – ex art. 2 comma 1 del D. Lgs. n. 165/2001 - da ciascuna amministrazione secondo il rispettivo ordinamento per definire le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, definizione che deve pur sempre avvenire “secondo i principi generali fissati da disposizioni di legge” e, in primis, di quelli di cui al D. Lgs. n. 165/2001 (art. 1). Ciò che, del resto, trova conferma nell’art. 15 comma 2 del D. Lgs. n. 502/1992, a mente del quale “la dirigenza sanitaria è disciplinata dal decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, salvo quanto previsto dal presente decreto”. Sussistono nel caso di specie tutti gli estremi per fare luogo alla così detta eterointegrazione dei documenti di gara con i contenuti imposti dalla legge, trattandosi di una lacuna della lex specialis di gara agevolmente colmabile – ex art. 1339 cod. civ. – con la disciplina rigidamente predeterminata da una disposizione di carattere imperativo (il citato art. 35 comma 5-bis del D. Lgs. n. 165/2001).   Sentenza TAR Liguria, Sez. II, 30.6.2016, n. 808 - Qualora il bando non imponga la notificazione a mezzo posta della comunicazione delle date di svolgimento delle prove ma soltanto la comunicazione delle stesse a mezzo di lettera raccomandata, senza neppure prevedere la formalità dell’avviso di ricevimento, trova applicazione la previsione di cui all’art. 1335 c.c., secondo il quale la proposta, l'accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all'indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di averne notizia. Mentre l’art. 1335 c.c. pone una chiara presunzione di conoscenza, l’art. 40 d.p.r. 655/1982, invocato dalla ricorrente per postergare il momento della conoscenza all’effettivo ritiro della raccomandata, ovvero al momento di scadenza del termine di giacenza, non contiene alcuna norma che disciplini gli effetti della giacenza della raccomandata sulla conoscenza della stessa da parte del destinatario, limitandosi a prescrivere la giacenza di trenta giorni per le raccomandate, con ciò divergendo sensibilmente dalla norma di cui all’art. 8 della l. 20 novembre 1982 n. 890 relativa alla notificazione a mezzo posta degli atti giudiziari. In presenza di una norma come quella dell’art. 40 d.p.r. 655/1982, appare arbitrario anche ipotizzare che la conoscenza si maturi in assenza di ritiro al momento della scadenza del periodo di giacenza, non essendo in alcun modo stabilita una presunzione simile. Esigenze di speditezza delle procedure concorsuali impongono inoltre di ripartire secondo lo schema di cui all’art 1335 c.c. il rischio della non conoscenza delle date dei pubblici concorsi di talchè nessuna violazione degli articoli rubricati è ravvisabile nelle disposizioni del bando di concorso che non impongono l’accertamento da parte dell’amministrazione dell’effettiva ricezione della comunicazione limitandosi a richiedere la spedizione della stessa con conseguente applicazione dell’art. 1335 c.c.       ANOMINATO L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 20 novembre 2013, ha chiarito che "Nelle prove scritte dei pubblici concorsi o delle pubbliche selezioni di stampo comparativo una violazione non irrilevante della regola dell’anonimato da parte della Commissione determina de iure la radicale invalidità della graduatoria finale, senza necessità di accertare in concreto l’effettiva lesione dell’imparzialità in sede di correzione".

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Pubblicata sulla G.U. n. 107 del 10.05.2014, la terza edizione delle Linee-Guida per i controlli antimafia di cui all'articolo 3-quinquies del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, inerente la realizzazione delle opere e degli interventi connessi allo svolgimento dell'EXPO Milano 2015.   L'Agenzia delle Entrate con la Risoluzione n. 10/E del 15 gennaio 2014 ha chiarito alcuni aspetti operativi sul regime di non imponibilità IVA stabilito dall’art. 10, comma 5, dell’Accordo tra il Governo della Repubblica italiana e il Bureau  International  des  Expositions  sulle  misure  necessarie per facilitare la partecipazione alla Esposizione Universale di Milano del 2015, ratificato con legge n. 3 del 14 gennaio 2013.   Si pubblica un recente lavoro riguardante le problematiche connesse alla partecipazione di imprese straniere, in particolare, ticinesi, agli appalti di EXPO 2015. Il lavoro è stato pubblicato nel corso di un incontro organizzato a Bellinzona dalla Cancelleria di Stato del Canton Ticino il 27 novembre 2013.

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