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Sono stati pubblicati in G.U. n. 17 del 22 gennaio 2016 i d.lgs. 15 gennaio 2016, nn. 7 e 8 recante rispettivamente "Disposizioni in materia di abrogazione di  reati  e  introduzione  di illeciti con sanzioni pecuniarie civili,  a  norma  dell'articolo  2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67" e "Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell'articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67". Ecco le principali novità del d.lgs. n. 7: a) abrogazione dei seguenti reati (art. 1): - falsità in scrittura privata (art. 485 c.p.); - falsità in foglio firmato in bianco (art. 486 c.p.); - ingiuria (art. 594 c.p.); - sottrazione di cose comuni (art. 627 c.p.); - appropriazione di cose smarrite, del tesoro o di cose avute per errore o caso fortuito (art. 647 c.p.); b) sono apportate modifiche agli artt. 488 (Altre falsità in foglio firmato in bianco. Applicabilità delle disposizioni sulle falsità materiali), 489 (Uso di atto falso), 490 (Soppressione, distruzione e occultamento di atti veri), 491 (Documenti equiparati agli atti pubblici agli effetti della pena), 491-bis (documenti informatici) e 493-bis (casi di perseguibilità a querela),  agli artt. 596, 597 e 599 (in materia di diffamazione ed ingiuria), nonché agli articoli da 635 a 635-quinquies in materia di danneggiamento (art. 2); c) introduzione delle sanzioni civili in luogo dei reati depenalizzati (artt. 3 e seguenti); Ecco le principali novità del d.lgs. n. 8: a) depenalizzazione generale per tutti i reati puniti  con  la  sola  pena  pecuniaria (ammenda o multa). Inoltre si stabilisce che la depenalizzazione "si applica anche ai reati in esso  previsti che, nelle  ipotesi  aggravate,  sono  puniti  con  la  pena detentiva, sola, alternativa o congiunta a quella pecuniaria. In tal caso, le ipotesi aggravate sono da ritenersi fattispecie autonome  di reato" ad eccezione dei reati indicati nell'allegato al decreto tra i quali spiccano quelli in materia edilizia (art. 1); b) depenalizzazione (art. 2): - del reato di atti osceni in luogo pubblico di cui al primo comma dell'art. 597 c.p. e aumentato sensibile delle pene per la fattispecie di cui al comma 2 e analoga previstione è contenuta per l'art. 598 c.p. in materia di pubblicazioni e spettacoli osceni; - della contravvenzione di cui all'art. 652 c.p. (rifiuto di prestare la propria opera in occasione di un tumulto); - della contravvenzione di cui all'art. 661 c.p. (abuso della credulità popolare); - della contravvenzione di cui all'art. 668 c.p. (rappresentazioni teatrali o cinematografiche abusive); - della contravvezione di cui all'art. 726 c.p. (atti contrari alla pubblica decenza. Turpiloquio); c) sono previste ulteriori depenalizzazioni in materia, tra gli altri, di diritto d'autore (art. 171-quater)  (art. 3)

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Ancora una pronuncia dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 28 settembre 2018, n. 15 sull'interpretazione dell'art. 105 c.p.a. che disciplina le ipotesi in cui il Giudice di secondo grado è tenuto alla rimessione della causa a quello di prime cure. Ecco il principio di diritto definito dall'Adunanza plenaria: "a) l’art. 105, co. 1, c.p.a. indica talune specifiche categorie inderogabili di casi d’annullamento con rinvio, ognuna delle quali è implementabile nel suo specifico ambito dalla giurisprudenza attraverso una rigorosa interpretazione sistematica del testo vigente del Codice, senza possibilità alcuna di pervenire o di tendere alla creazione surrettizia d’una nuova categoria (e, dunque, d’una nuova norma processuale) o, peggio, all’arbitraria interpretazione motivata senza passare al previo vaglio del Giudice delle leggi, dalla prevalenza del solo principio del doppio grado di giudizio rispetto ad altri parametri costituzionali; b) la nuova nomenclatura contenuta nel vigente art. 105 c.p.a. non ammette tout court l’erronea declaratoria d’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse quale sussumibile nella categoria della lesione dei diritti della difesa, sol perché su talune questioni di merito non si attua il doppio grado di giudizio. Per contro, l’annullamento della sentenza con rinvio al primo Giudice può conseguire, nel caso indicato dalla Sezione remittente, solo a fronte di evidenti ed irrimediabili patologie del complesso della motivazione e non di singole distonie tra il chiesto e il pronunciato, ossia a fronte di quei, per vero, marginali casi in cui è inutilizzabile il decisum (che ridonda quindi nella nullità della sentenza) e sono stati conculcati i diritti di difesa di tutte le parti (P.A. inclusa); c) è sempre possibile, in linea di principio, riconoscere al Giudice d’appello il potere di sindacare il contenuto della motivazione dell’impugnata sentenza, affinché si possa riqualificare il dispositivo delle sentenze in rito ex art. 35, co. 1, c.p.a., ove s’accerti la patologica eversione del Giudice di prime cure dall’obbligo della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) o dall’obbligo di motivazione (artt. 74 e 88 c.p.a.) –trattandosi, com’è noto, di vicende che impingono sulla struttura inderogabile ed essenziale della sentenza, rispetto all’oggetto del processo–, a condizione, però, che tal patologia, foss’anche per evidenti errori sui fatti di causa tali da alterare la stessa possibilità di difesa delle parti, investa il complesso della motivazione stessa e non una sola sua parte (invece emendabile nei modi ordinari) o, peggio, il punto di diritto affermato (specie se questo, al di là della precisione semantica o d’una buona forma espositiva, sia fedele agli indirizzi consolidati o prevalenti della giurisprudenza di questo Consiglio); b.3) è evidente che dette ultime ipotesi costituiscano, ovviamente alle condizioni testé evidenziate, tanto una lesione dei diritti della difesa sostanziale delle parti nel grado di riferimento, quanto una vicenda di nullità della sentenza ed implicano, per forza di cose, l’annullamento con rinvio ex art. 105, co. 1, c.p.a.".   Con decisione 5 settembre 2018 n. 14 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è tornata a pronunciarsi sulla portata dell’art. 105 c.p.a., il quale disciplina le ipotesi in cui il Giudice d’Appello è tenuto alla rimessione della causa al giudice di primo grado. La fattispecie all’esame dell’A.P. ha ad oggetto l’omessa pronuncia del primo giudice sulla domanda risarcitoria posta dal ricorrente a corredo dell’impugnativa (e accolta dal TAR relativamente all’annullamento del provvedimento impugnato). L’Adunanza Plenaria afferma che nella fattispecie non vi è luogo ad un rinvio della causa al Giudice di primo grado in quanto l’omessa pronuncia su una delle domande proposte non integra un’ipotesi di nullità assoluta tale da imporre la rimessione ex art. 105 c.p.a., ben potendo pronunciarsi il Giudice d’appello sulla questione senza che risulti violato il diritto di difesa della parte. In coerenza con il generale principio dell’effetto devolutivo/sostitutivo dell’appello, recita la pronuncia, “le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado previste dall’art. 105 Cod. proc. amm. hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive”. E ancora “La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, anche quando si sia tradotta nella mancanza totale di pronuncia da parte del giudice di primo grado su una delle domande del ricorrente, non costituisce un’ipotesi di annullamento con rinvio; pertanto, in applicazione del principio dell’effetto sostitutivo dell’appello, anche in questo caso, ravvisato l’errore del primo giudice, la causa deve essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado”.       L'Adunanza plenaria con le due sentenze 30 luglio 2018, nn. 10 e 11 chiarisce i presupposti per il rinvio al Giudice di primo grado. Ecco il principio di diritto esposto "1. In coerenza con il generale principio dell’effetto devolutivo/sostitutivo dell’appello, le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado previste dall’art. 105 Cod. proc. amm. hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive. 2. L’erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso di primo grado non costituisce, di per sé, un caso di annullamento con rinvio, in quanto la chiusura in rito del processo, per quanto erronea, non determina, ove la questione pregiudiziale sia stato oggetto di dibattitto processuale, la lesione del diritto di difesa, né tanto meno un caso di nullità della sentenza o di rifiuto di giurisdizione. 3. La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, anche quando si sia tradotta nella mancanza totale di pronuncia da parte del giudice di primo grado su una delle domande del ricorrente, non costituisce un’ipotesi di annullamento con rinvio; pertanto, in applicazione del principio dell’effetto sostitutivo dell’appello, anche in questo caso, ravvisato l’errore del primo giudice, la causa deve essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado. 4. Costituisce un’ipotesi di nullità della sentenza che giustifica l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado il difetto assoluto di motivazione. Esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”, tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica oppure obiettivamente incomprensibile: quando, cioè, le anomalie argomentative sono di gravità tale da collocare la motivazione al di sotto del “minimo costituzionale” di cui all’art. 111, comma 5, Cost. 5. La disciplina dei rapporti tra giudice di primo grado e giudice d’appello ha natura indisponibile, il che implica che, fermo restando l’onere di articolare specifici motivi di appello e il generale principio di conversione della nullità in motivi di impugnazione, nei casi di cui all’art. 105 Cod. proc. amm., il giudice d’appello deve procedere all’annullamento con rinvio anche se la parte omette di farne esplicita richiesta o chiede espressamente che la causa sia direttamente decisa in secondo grado. Viceversa, nei casi in cui non si applica l’art. 105 Cod. proc. amm., la possibilità per il giudice di appello di pronunciarsi sulla domande o sulle domande non esaminate in primo grado o erroneamente dichiarate irricevibili, inammissibili o improcedibili, presuppone necessariamente che, ai sensi dell’art. 101, comma 2, tali domande siano oggetto di rituale riproposizione, operando, altrimenti, la presunzione di rinuncia stabilita dallo stesso articolo, con conseguente inammissibilità per difetto di interesse dell’appello proposto senza assolvere all’onere di riproposizione".       Cass. SS. UU, 20 ottobre 2016, n. 21260 - L’attore che abbia incardinato la causa dinanzi ad un giudice e sia rimasto soccombente nel merito non è legittimato a interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto.     Consiglio di Stato Sez. V, 31 marzo 2016, sentenza n. 1268 – Inammissibilità del ricorso in appello – “la testuale riproposizione dei motivi di ricorso di primo grado (in assenza di una specifica indicazione dei motivi in concreto assorbiti e delle ragioni per cui ciascuno di essi viene riproposto in relazione alle diverse statuizioni della sentenza gravata) si pone in contrasto: - con il generale principio della specificità dei motivi di appello; - con il consolidato principio secondo cui è inammissibile la mera riproposizione dei motivi di primo grado, senza che sia sviluppata alcuna confutazione della statuizione del primo giudice (sul punto,ex multis,Cons. Stato, V, 22 ottobre 2015, n. 4865); - con il parimenti consolidato principio secondo cui l'effetto devolutivo dell'appello non esclude l'obbligo dell'appellante di indicare nell'atto di appello le specifiche critiche rivolte alla sentenza impugnata e le ragioni per le quali le conclusioni cui il primo giudice è pervenuto non sono condivisibili, non potendo il ricorso in appello limitarsi ad una generica riproposizione degli argomenti dedotti in primo grado (sul punto,ex multis, Cons. Stato, III, 23 luglio 2015, n. 3650)”.

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L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 9 febbraio 2016, n. 2 chiarisce i poteri del Commissario ad acta nel caso di procedimento per l'emanazione di un provvedimento ex art. 42-bis d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 in materia di T.U. delle espropriazioni, esprimendo il seguente principio di diritto: "Il commissario ad acta può emanare il provvedimento di acquisizione coattiva previsto dall’articolo 42-bis d.P.R. 8 giugno 2011, n. 327 – Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità -: a) se nominato dal giudice amministrativo a mente degli artt. 34, comma 1, lett. e), e 114, comma, 4, lett. d), c.p.a., qualora tale adempimento sia stato previsto dal giudicato de quo agitur; b) se nominato dal giudice amministrativo a mente dell’art. 117, comma 3, c.p.a., qualora l’amministrazione non abbia provveduto sull’istanza dell’interessato che abbia sollecitato l’esercizio del potere di cui al menzionato art. 42-bis"

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L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 9 febbraio 2016, n. 3 enuncia il seguente principio di diritto in materia di Codice del consumo ai sensi dell'art. 27, comma 1-bis: "la competenza ad irrogare la sanzione per “pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva” è sempre individuabile nell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato"

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Il TAR Liguria, Sezione I, ribadisce con la sentenza 29/1/2016, n. 95 l'insussistenza di una astratta e generalizzata esclusione del generale obbligo di comunicazione di avvio del procedimento in materia di ordinanze contingibili e urgenti. Ad avviso del Tribunale amministrativo, infatti, l'inciso iniziale dell'art. 7 della legge n. 241/1990, relativo alla sussistenza di ragioni derivanti da particolari esigenze di celerità, "non ha l'effetto di esentare una categoria astratta di provvedimenti amministrativi, quelli di necessità ed urgenza, dall'obbligo di comunicare l'inizio del procedimento, ma impone solo la verifica delle effettive e peculiari ragioni di ogni singolo caso".

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TERZO SETTORE E APPALTI CONS. STATO, Comm. spec., 20 agosto 2018 - parere n. 2052 su quesito ANAC in merito a normativa applicabile agli affidamenti di servizi sociali alla luce del d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50 e del d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117.   Pubblicate dal Ministero delle Infrastrutture e Trasporti le Linee guida per la valutazione degli investimenti nelle opere pubbliche ai sensi del d.lgs. n. 228/2011.     SERVIZI IN MATERIA DI SFRUTTAMENTO DI AREA GEOGRAFICA Con la sentenza 5.11.2015 n. 882, il TAR Liguria, Sez. II, ha chiarito che l’appalto per la gestione dei servizi complementari e sussidiari di vigilanza e sicurezza da svolgersi nell’ambito degli edifici e delle aree del porto di Genova, "essendo aggiudicato per scopi diversi - ancorché strumentali - dall’esercizio dell’attività relativa allo sfruttamento di un'area geografica ai fini della messa a disposizione del porto ai vettori marittimi (art. 213 D. Lgs. n. 163/2006)", esula dal campo di applicazione della parte III del codice dei contratti pubblici.   Ad avviso del Tribunale Amministrativo, configurandosi quale appalto relativo ad un’attività collaterale esercitata in un contesto concorrenziale (cfr. C.G.C.E., IV, 10.4.2008, n. 393/06 cit.), il suddetto servizio sfugge all’applicazione delle regole di evidenza pubblica di cui alla parte terza del codice dei contratti pubblici, con la conseguenza che la cognizione di eventuali controversie sull'affidamento del medesimo spetta al Giudice ordinario.

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Cons. Stato, Sez. V, 17 febbraio 2016, n. 638 -  ai sensi dell’art. 1 bis del d.lgs. n. 178/2012 (introdotto dall’art. 4, comma 10 ter, del d.l. 31 agosto 2013 n. 101, convertito dalla legge 30 ottobre 2013 n. 125) i comitati locali e provinciali della C.R.I. hanno assunto a far data dal 1° gennaio 2014 la personalità giuridica di diritto privato -  i comitati locali e provinciali della C.R.I. oltre che stipulare convenzioni con gli enti del S.S.N. possono anche partecipare a gare pubbliche e sottoscrivere i relativi contratti

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Si segnala questo interessante pronunciamento del T.A.R. Lazio, sez. I-ter, 4 marzo 2016, n. 2882, secondo la quale "In via generale deve evidenziarsi che sottesa all’adozione di un provvedimento interdittivo antimafia vi è una valutazione discrezionale, da parte dell’Amministrazione dell’Interno; essa, per non sconfinare in mero arbitrio, “può dirsi ragionevole e attendibile se sorretta da una pluralità di indizi seri, precisi e concordanti, oggettivamente riscontrabili, che secondo l’esperienza comune assumono un significato univoco” (cfr.: C.G.A. 10.7.2014, n. 397; Cons. Stato - sez. III 26.9.2014, n. 4852)." [...] nel caso di specie a presupposto dell’adozione dell’interdittiva antimafia qui gravata è la circostanza che il dott. -OMISSIS- sindaco supplente della Società dalla stessa colpita, era stato rinviato a giudizio, per riciclaggio ed associazione a delinquere, come rappresentante legale di una delle società presuntamente riconducibili al sodalizio del Sig. -OMISSIS- e finalizzate alla commissione di reati di evasione fiscale e truffa ai danni di enti pubblici.   10.3 - In tale provvedimento nessun collegamento viene individuato tra l’attività contestata al Sig. -OMISSIS- in relazione ad altra società di cui era legale rappresentante e, perciò, del tutto al di fuori dei suoi rapporti con la -OMISSIS-, e quest’ultima Società. 10.4 - Va in proposito rimarcato il ruolo del tutto marginale della figura del sindaco, che non svolge alcun compito gestionale nell’ambito della Società. 10.5 - Nel caso che ci occupa si tratta addirittura di un sindaco supplente, chiamato a prestare la propria opera di controllo solo in caso di impedimento o assenza dei titolari, ipotesi nella specie mai verificatasi in concreto. 10.6 - È evidente, pertanto, che qui non ricorrono quegli indizi seri, precisi e concordanti circa la permeabilità della Società ricorrente ad infiltrazioni mafiose, che possono sorreggere il provvedimento interdittivo"

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Consiglio di Stato, Sez. IV, 23 febbraio 2018, n. 824: "l’istanza cautelare proposta dagli appellanti non appare assistita da fumus boni iuris, atteso che il ricorso, come delibato dal primo giudice in via sommaria, sembra irricevibile per tardività in quanto i lavori hanno avuto inizio nel 2014 e la vicinitas degli appellanti rispetto all’area e alle opere edilizie induce a ritenere che gli stessi abbiano potuto avere facilmente una conoscenza della entità degli stesso anche prima della loro conclusione (sui principi elaborati dalla giurisprudenza circa la decorrenza del termine di impugnazione dei titoli edilizi cfr. Cons. Stato, IV, nn. 5754 e 3067 del 2017 e 3067 del 2017 nonché Cons. Stato, VI, n. 4830 del 2017); rilevata altresì l’inammissibilità dell’impugnazione della scia in quanto atto tipicamente privatistico (cfr. sul tema Cons. Stato, sez. IV, nn. 3281, 1967 e 325 del 2017); considerato che, in ragione dello stato di avanzamento dei lavori sembra parimenti difettare il requisito del periculum in mora".   T.A.R. Liguria, Sez. I, 3 ottobre 2016, n. 970 - Anche prima dell’entrata in vigore della legge n. 124 del 2015, la giurisprudenza aveva riconosciuto che, in materia di SCIA, l'amministrazione può ancora intervenire per contrastare l'attività edilizia non conforme alla vigente normativa una volta spirato il termine per l’esercizio del potere inibitorio, esercitando un potere di autotutela sui generis (perché non avente ad oggetto un provvedimento di primo grado) che condivide con l'ordinario potere di autotutela i principi che ne governano l’esercizio (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 29 luglio 2011, n. 15). Era pertanto indispensabile, affinché tale potere potesse dirsi legittimamente esercitato, che, ai sensi dell’art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990, l’autorità amministrativa intervenisse “entro un termine ragionevole”. Il legislatore, quindi, aveva individuato il limite temporale per disporre l'annullamento d'ufficio secondo un parametro indeterminato ed elastico che doveva essere adattato alle circostanze del caso concreto, finendo per lasciare al sindacato del giudice amministrativo il compito di valutare, anche in relazione alla complessità degli interessi coinvolti ed al loro consolidamento, la congruità del termine intercorso tra l'adozione del provvedimento di autotutela e l’atto originario. Tanto precisato, non dubita il Collegio che, nel caso di specie, l’ampio lasso di tempo (oltre 30 mesi) trascorso dal consolidamento della SCIA fosse più che sufficiente a generare un affidamento qualificato in capo al privato, anche perché si trattava di un intervento edilizio non complesso e non confliggente con eventuali interessi di terzi. Va soggiunto che l’art. 21 nonies citato prevede, nell’attuale formulazione, un preciso sbarramento temporale all’esercizio del potere di autotutela, laddove stabilisce che il potere di annullamento d’ufficio non può comunque essere esercitato oltre “diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”. Pur trattandosi di previsione non applicabile ratione temporis, essa assume sicuro rilievo, come già rilevato dalla giurisprudenza amministrativa, per individuare il termine “ragionevole” entro il quale può essere legittimamente esercitato il potere di autotutela (Cons. Stato, sez. VI, 31 agosto 2016, n. 3762; idem, 10 dicembre 2015, n. 5625). I rilievi della difesa comunale non valgono ad escludere, infine, la sussistenza di un affidamento particolarmente qualificato in capo al privato in quanto, a fronte della chiara indicazione contenuta nel frontespizio della SCIA, non potevano nutrirsi ragionevoli dubbi in ordine alla normativa applicabile nella fattispecie. L’ipotetico fraintendimento generato da alcune contraddittorietà emergenti dalla documentazione allegata alla SCIA, comunque, non poteva giustificare il grave ritardo con cui, oltre due anni dopo la comunicazione di avvio del relativo procedimento, è stato adottato il provvedimento finale. Non rileva, infine, il mancato avvio dei lavori (peraltro contestato dalla parte ricorrente), poiché l’affidamento del privato discende direttamente dal consolidamento degli effetti della SCIA e dal successivo decorso del tempo.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 30 giugno 2016, n. 781 - Con le prime censure le ricorrenti denunciano lo sviamento di potere configurato dall’atto comunale, che costituirebbe un arresto procedimentale non ammesso dopo la presentazione di una d.i.a. (s.c.i.a.), sì che la p.a. avrebbe piuttosto dovuto provvedere alla sospensione degli effetti della domanda, riformulando la tempistica del procedimento all’esito del quale l’istanza sarebbe ritornata assentibile; con tali principi contrasta invece la natura di arresto procedimentale che si deriva dal provvedimento. Il collegio concorda con la tesi esposta, nel senso che soprattutto nella materia edilizia (art. 19 comma 6 bis della legge 7.8.1990, n. 241) l’attività amministrativa deve essere piuttosto volta alla collaborazione per la completezza delle istanze, e non già all’imposizione di un generale divieto al compimento di quanto preannunciato.   T.A.R. Lombardia-Milano, Sez. II, 15 aprile 2016, n. 735 - Con la richiamata sentenza n. 2799 del 2014, la Sezione ha, anzitutto, rilevato che i poteri inibitori spettanti all’amministrazione nei confronti degli interventi oggetto di una denuncia di inizio di attività vanno esercitati entro il termine normativamente prescritto, decorso il quale il “consolidarsi” della d.i.a. determina – di regola – l’impossibilità per il Comune di intervenire, se non nell’esercizio dei poteri di autotutela (Cons. Stato, Sez. VI, 22 settembre 2014 n. 4780). Si tratta di conclusioni che trovano ormai pieno riscontro nell’attuale previsione del comma 4 dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990, come sostituito dall'articolo 6, comma 1, lett. a) della legge 7 agosto 2015, n. 124, in base al quale, una volta decorso il termine per l’esercizio del controllo sulla denuncia o segnalazione certificata di inizio attività, “l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies”. Disposizione, questa, che è bensì inapplicabile ratione temporis nel presente giudizio, ma che ha sostanzialmente codificato gli esiti del dibattito giurisprudenziale sul punto. E ciò anche avuto riguardo alla natura dei poteri esercitati dall’amministrazione in quest’ultima ipotesi, che sono pur sempre di tipo inibitorio, ma subordinatamente al riscontro dei presupposti per l’intervento in autotutela (in coerenza con quanto già da tempo autorevolmente chiarito da Cons. Stato, Sez. VI, 9 febbraio 2009, n. 717). 9.2 Ciò posto, la sentenza della Sezione n. 2799 del 2014 ha affermato che l’intervento inibitorio è, tuttavia, da ritenere doveroso, e non soggetto al ricorrere dei presupposti propri del potere di autotutela, laddove la carenza dei presupposti della d.i.a. sia denunciata dal terzo, titolare di una posizione giuridica qualificata e differenziata, ai sensi del richiamato comma 6-ter del medesimo articolo 19. E ciò – come già affermato nella sentenza richiamata – perché è anzitutto il chiaro tenore testuale della previsione normativa richiamata a non fare alcun riferimento al decorso del termine per il “consolidarsi” della denuncia di inizio di attività. D’altra parte – come pure si è affermato nella sentenza n. 2799 del 2014 – “laddove dovesse ritenersi che il terzo, venuto a conoscenza della d.i.a. dopo il decorso del termine per il compimento delle verifiche, non possa chiedere l’esercizio dei poteri inibitori, ne deriverebbe un vulnus nei confronti della tutela offerta dall’ordinamento nei confronti di tale soggetto.”Questi, infatti, da un lato non disporrebbe di alcun provvedimento impugnabile (ostandovi il chiaro tenore del richiamato comma 6-ter dell’articolo 19) e, dall’altro, potrebbe solo invocare l’intervento in autotutela, che è però esercitabile solo in presenza di precisi presupposti, ulteriori rispetto al mero riscontro dell’illegittimità. 9.3 La posizione espressa con la sentenza di questa Sezione n. 2799 del 2014 è stata condivisa e ribadita da numerose successive pronunce di primo grado (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 5 marzo 2015, n. 1410; TAR Piemonte, Sez. II, 1° luglio 2015, n. 1114; TAR Veneto, Sez. II, 12 ottobre 2015, n. 1038 e n. 1039). In particolare, la giurisprudenza ha evidenziato che “Una tale interpretazione appare peraltro obbligata secondo una lettura costituzionalmente orientata delle norme alla luce dei principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale sanciti dagli artt. 24, 111 e 113 della Costituzione, non risultando altrimenti giustificabile, rispetto all’intento di garantire una tendenziale stabilità ai titoli abilitativi, l’eccessivo sacrificio che verrebbe imposto al diritto di azione del terzo leso dall’attività intrapresa. Infatti il legislatore ha escluso che la denuncia e la dichiarazione di inizio attività costituiscano provvedimenti taciti direttamente impugnabili, ammettendo solo che i terzi interessati possano sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'Amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione contro il silenzio. Poiché il terzo leso ha quest’unico rimedio a tutela della propria sfera giuridica, quando l’intervento di verifica risulti dallo stesso sollecitato e ad esso possa riconoscersi la titolarità di un interesse differenziato e qualificato, il divieto di prosecuzione dell’attività o l’inibitoria deve potersi svolgere in modo pieno e senza i limiti propri dell’autotutela avviata d’ufficio.” (così TAR Veneto, n. 1038 del 2015, cit.). 10. Posto quindi che, secondo la lettura qui accolta, l’articolo 19, comma 6-ter, impone all’amministrazione di esercitare pieni poteri inibitori della denuncia di inizio di attività, anche dopo il “consolidarsi” del titolo edilizio, qualora sia a ciò sollecitata da un terzo titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata, occorre chiedersi se tale soggetto possa sollecitare in qualunque momento l’intervento dell’amministrazione stessa, ovvero abbia l’onere di farlo entro un lasso di tempo stabilito. 10.1 Anche questa questione è stata affrontata, sia pure sinteticamente, nella richiamata sentenza n. 2799 del 2014, come correttamente rilevato, nel presente giudizio, dalla difesa del controinteressato. In quella pronuncia, infatti, è stato esplicitamente evidenziato che il terzo che si assumeva leso dalla denuncia di inizio di attività presentata dal confinante si era rivolto all’amministrazione entro sessanta giorni dal momento in cui, accedendo agli atti della pratica edilizia, aveva preso piena conoscenza del contenuto della d.i.a. e delle esatte caratteristiche dell’intervento progettato. La pronuncia ha, quindi, implicitamente ritenuto rilevante la circostanza che l’istanza volta a provocare l’esercizio del potere inibitorio fosse intervenuta entro il suddetto termine. 10.2 Il rilievo attribuito dalla suddetta pronuncia al momento della presentazione dell’istanza rivolta all’amministrazione non è stato condiviso da un altro orientamento giurisprudenziale recentemente emerso. In base a tale diversa ricostruzione, il terzo leso dalla d.i.a. (o s.c.i.a.) potrebbe infatti rivolgersi in ogni tempo all’amministrazione, e ottenere comunque il pieno esercizio dei poteri inibitori, senza necessità del riscontro dei presupposti propri dell’autotutela (in questo senso: TAR Piemonte, Sez. II, n. 1114 del 2015, cit.). Tesi, questa, che viene argomentata sia sulla base del tenore testuale del comma 3-bis dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 – il quale non indica testualmente alcun limite temporale per la diffida diretta all’amministrazione – sia in considerazione della circostanza che la possibilità di un intervento “a tutto campo” e in ogni tempo sulla d.i.a., in presenza di una sollecitazione proveniente da un terzo che si assuma pregiudicato dall’intervento, dovrebbe ritenersi giustificata dalla natura stessa dell’istituto, che non dà luogo alla formazione di un provvedimento amministrativo e si basa sulla responsabilità del privato. Il Collegio ritiene, tuttavia, che tali considerazioni possano essere condivise soltanto in parte, come meglio si illustrerà nel prosieguo. 10.3 Deve, anzitutto, confermarsi e ribadirsi in questa sede l’orientamento già espresso – anche in relazione al profilo inerente ai termini per la sollecitazione dei poteri inibitori – dalla sentenza della Sezione n. 2799 del 2014. E’ infatti da ritenere che le conclusioni raggiunte, sul punto, dalla pronuncia richiamata siano necessitate, alla stregua dell’interpretazione sistematica e – ancora una volta – costituzionalmente orientata del dato normativo, costituito dall’articolo 19, comma 3-ter, della legge n. 241 del 1990. Per ciò che attiene al profilo sistematico, l’interpretazione della disposizione deve necessariamente tenere conto della circostanza che l’intera disciplina della denuncia di inizio di attività, fino ai più recenti interventi normativi (in parte successivi alla formazione dei titoli oggetto del presente giudizio, ma comunque rilevanti ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema), risulta chiaramente ispirata dalla finalità di coniugare l’esigenza di incentrare il fondamento normativo della d.i.a sull’autoresponsabilità del privato con quella di assicurare comunque una sostanziale stabilità del titolo edilizio – analoga a quella propria del permesso di costruire – dopo il decorso del tempo stabilito per il suo “consolidarsi”. In tale quadro normativo, è certamente necessario – come sopra detto – assicurare al terzo la possibilità di ottenere piena tutela, mediante l’esercizio dei poteri inibitori dell’amministrazione, anche dopo che sia trascorso tale termine di tendenziale “stabilizzazione” del titolo edilizio. Tuttavia, tale possibilità non può tradursi nell’eliminazione di qualunque garanzia attinente al “consolidarsi” della d.i.a., né eccedere quanto necessario e sufficiente ad assicurare al terzo leso dalla denuncia di inizio attività una tutela equivalente a quella riconosciuta al soggetto leso da un permesso di costruire. Per questa ragione, deve ritenersi che il soggetto titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata che lamenti un pregiudizio derivante da una denuncia o segnalazione certificata di inizio attività possa ottenere il pieno e doveroso esercizio dei poteri inibitori, senza i limiti propri dell’autotutela, soltanto laddove abbia sollecitato l’intervento dell’amministrazione entro sessanta giorni dal momento in cui ha avuto conoscenza della lesione. Il predetto termine di sessanta giorni, pur non espressamente previsto dal comma 3-bis dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990, deve infatti ricavarsi in via sistematica, tenendo conto che la diffida prevista dalla disposizione ora richiamata costituisce l’unico “canale” percorribile dall’interessato al fine di adire eventualmente, in un secondo momento, la tutela giurisdizionale. In tale prospettiva, l’esigenza di assicurare sia la pienezza della tutela (ai sensi dell’articolo 24 della Costituzione), che la parità di trattamento rispetto al soggetto leso da un permesso di costruire (in relazione all’articolo 3 della Costituzione) impone di fare applicazione del termine ordinariamente previsto per l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi, fissato dall’articolo 29 del codice del processo amministrativo. E’ ben vero che il termine di cui all’articolo 29 ora richiamato ha natura processuale e non procedimentale; tuttavia, come detto, la fase procedimentale necessaria stabilita dal comma 3-bis dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 costituisce un passaggio obbligato per l’accesso alla tutela giurisdizionale, per cui è dalla disciplina propria di quest’ultima che può e deve trarsi il dato necessario all’integrazione in via interpretativa della lacuna normativa. Tale opzione ermeneutica risulta essere stata accolta, del resto, anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, la quale non ha mancato di rimarcare, in una recente pronuncia, che “il potere di sollecitazione del terzo non è da intendersi come esercitabile ad libitum, bensì rimane assoggettato al rispetto del termine di decadenza decorrente dalla conoscenza della D.I.A” (così Cons. Stato, Sez. IV, 12 novembre 2015, n. 5161). 11. Occorre a questo punto domandarsi quid iuris nel caso in cui il terzo abbia richiesto l’intervento dell’amministrazione dopo il decorso di sessanta giorni dal momento in cui ha avuto piena conoscenza del contenuto lesivo della denuncia di inizio di attività. La difesa del controinteressato ritiene che, in questo caso, l’impugnazione del provvedimento con cui l’amministrazione ha negato l’esercizio dei poteri relativi alla d.i.a. sia radicalmente inammissibile. 11.1 Il Collegio non ignora che tale soluzione risulta essere stata accolta dalla sentenza del Consiglio di Stato da ultimo richiamata (Cons. Stato n. 5161 del 2015, cit.), ma ritiene – su questo specifico aspetto – di dover addivenire a conclusioni in parte diverse rispetto al giudice d’appello. Deve, infatti, tenersi presente il dato imprescindibile (ben evidenziato, come detto, da TAR Piemonte n. 1114 del 2015, cit., che però perviene a conclusioni non coincidenti con quelle qui sostenute) che il comma 6-ter dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 non prevede alcun termine per la sollecitazione dei poteri dell’amministrazione e per l’insorgere del correlativo obbligo, per quest’ultima, di pronunciarsi sull’istanza. Per le ragioni già diffusamente illustrate, laddove l’istanza sia presentata da un terzo titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata, entro il termine di sessanta giorni dalla conoscenza della d.i.a. o s.c.i.a., l’amministrazione non potrà esimersi dall’esercitare pienamente i propri poteri inibitori. Ciò, però, non toglie che il terzo ben possa sollecitare l’intervento dell’amministrazione anche oltre tale termine, al fine di invocare non già il pieno esercizio dei poteri inibitori, bensì il riscontro della sussistenza dei – diversi – presupposti normativamente previsti per l’intervento in autotutela. 11.2 Al riguardo, deve precisarsi che – anche laddove la sollecitazione debba intendersi diretta a provocare l’esercizio dei poteri di autotutela – l’amministrazione è comunque tenuta ad esprimersi sull’istanza, eventualmente illustrando le ragioni per le quali ritenga non sussistenti i presupposti per la rimozione del titolo edilizio. E’ vero, infatti, che – secondo i principi – l’esercizio dell’autotutela è, di regola, tipicamente discrezionale nell’an, per cui l’amministrazione non è tenuta, di norma, neppure a riscontrare l’istanza di autotutela presentata da un privato (v. ex multis Cons. Stato, V, 3 maggio 2012 n. 2549). Tuttavia, nel caso della denuncia o segnalazione certificata di inizio attività, la sussistenza di un dovere dell’amministrazione di verificare l’esistenza dei presupposti per l’esercizio del potere è imposta dal chiaro tenore testuale del richiamato comma 3-bis dell’articolo 19, il quale attribuisce espressamente al terzo che si assuma leso dal titolo edilizio un incondizionato accesso anche alla tutela giurisdizionale avverso il silenzio. D’altro canto, la soluzione prescelta dal legislatore è coerente con il fondamentale rilievo che, nel caso di intervento di controllo relativo alla d.i.a. o s.c.i.a., non si fa questione di esercizio di poteri di autotutela in senso proprio, poiché manca un provvedimento amministrativo rispetto al quale possa esercitarsi un potere di secondo grado. Piuttosto – come sopra detto – l’amministrazione, in questo caso, esercita pur sempre poteri di tipo inibitorio, ma subordinatamente al riscontro dei presupposti per l’intervento in autotutela. 12. In definitiva, alla luce di tutto quanto sin qui esposto, il Collegio ritiene che la previsione del comma 6-ter dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 imponga all’amministrazione di riscontrare motivatamente, in ogni caso, l’istanza con cui un terzo, titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata, abbia sollecitato l’intervento della stessa amministrazione in relazione a una denuncia o segnalazione certificata di inizio attività. In particolare, laddove l’istanza pervenga entro sessanta giorni dal momento in cui tale soggetto risulta aver avuto conoscenza dei profili lesivi dell’intervento, l’amministrazione sarà tenuta a esercitare, sussistendone i presupposti, pieni poteri inibitori, poiché – in difetto – il terzo subirebbe una diminuzione della tutela accordatagli rispetto a chi sia leso da un permesso di costruire. Superati i sessanta giorni, l’amministrazione dovrà comunque a verificare, dandone conto motivatamente, unicamente la sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’autotutela. Logico corollario di quanto sin qui affermato è che la circostanza che tale terzo abbia avuto conoscenza del titolo edilizio da più di sessanta giorni non comporta conseguenze processuali, in relazione alla eventuale successiva azione giurisdizionale contro il silenzio o il provvedimento negativo emesso dall’amministrazione, ma ha unicamente conseguenze di tipo procedimentale (secondo quanto già rilevato dalla Sezione con la sentenza n. 585 del 5 marzo 2014). In entrambe le ipotesi sopra enunciate, il ricorso giurisdizionale avverso il provvedimento con cui l’amministrazione abbia negato il proprio intervento sarà quindi ammissibile – sussistendo, beninteso, tutte le altre condizioni dell’azione – ma la risposta dell’amministrazione dovrà essere verificata tenendo conto del diverso potere esercitato nelle due ipotesi sopra dette.   Corte Cost., 9 marzo 2016, n. 49 - È giurisprudenza pacifica che, nell’ambito della materia concorrente «governo del territorio», prevista dal comma in questione, i titoli abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina che assurge a principio fondamentale (sentenze n. 259 del 2014, n. 139 e n. 102 del 2013, n. 303 del 2003), e tale valutazione deve ritenersi valida anche per la denuncia di inizio attività (DIA) e per la SCIA che, seppure con la loro indubbia specificità, si inseriscono in una fattispecie il cui effetto è pur sempre quello di legittimare il privato ad effettuare gli interventi edilizi (sentenze n. 121 del 2014, n. 188 e n. 164 del 2012). Va subito soggiunto, peraltro, che tale fattispecie ha una struttura complessa e non si esaurisce, rispettivamente, con la dichiarazione o la segnalazione, ma si sviluppa in fasi ulteriori: una prima, di ordinaria attività di controllo dell’Amministrazione (rispettivamente nei termini di sessanta e trenta giorni); una seconda, in cui può esercitarsi l’autotutela amministrativa. Non vi è dubbio, infatti, che anche le condizioni e le modalità di esercizio dell’intervento della pubblica amministrazione, una volta che siano decorsi i termini in questione, debbano considerarsi il necessario completamento della disciplina di tali titoli abilitativi, poiché la individuazione della loro consistenza e della loro efficacia non può prescindere dalla capacità di resistenza rispetto alle verifiche effettuate dall’Amministrazione successivamente alla maturazione degli stessi. La disciplina di questa fase ulteriore, dunque, è parte integrante di quella del titolo abilitativo e costituisce con essa un tutt’uno inscindibile. Il suo perno è costituito da un istituto di portata generale – quello dell’autotutela –che si colloca allo snodo delicatissimo del rapporto fra il potere amministrativo e il suo riesercizio, da una parte, e la tutela dell’affidamento del privato, dall’altra. Non è un caso, del resto, che è proprio a questa fase della formazione dei titoli in esame che il legislatore abbia dedicato la maggiore attenzione, ritornando più volte sull’argomento, al fine di pervenire ad un giusto equilibrio fra le esigenze di certezza delle situazioni giuridiche maturate a seguito della DIA e della SCIA e le ragioni di tutela dell’interesse pubblico urbanistico. Ne discende che anche per questa parte la disciplina in questione costituisce espressione di un principio fondamentale della materia «governo del territorio». 8.1.− Con riguardo alla portata dei «principi fondamentali» riservati alla legislazione statale nelle materie di potestà concorrente, questa Corte ha avuto modo di chiarire, tra l’altro, che «il rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio […] deve essere inteso nel senso che l’una è volta a prescrivere criteri ed obiettivi, mentre all’altra spetta l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi» (sentenze n. 272 del 2013 e n. 237 del 2009). Ebbene, la normativa regionale in esame, nell’attribuire all’Amministrazione un potere di intervento, lungi dall’adottare una disciplina di dettaglio, ha introdotto una normativa sostitutiva dei principi fondamentali dettati dal legislatore statale; pertanto viene proprio a toccare i punti nevralgici del sistema elaborato nella legge sul procedimento amministrativo (sede già di per sé significativa) e cioè il potere residuo dell’Amministrazione, a termini ormai decorsi, e il suo ambito di esercizio (in concreto, i casi che ne giustificano l’attivazione). Essa, dunque, comporta l’invasione della riserva di competenza statale alla formulazione di principi fondamentali, con tutti i rischi per la certezza e per l’unitarietà della disciplina che tale invasione comporta; e ciò tanto più in una materia che, come è noto, e come dimostrano le sue frequenti modifiche, presenta delicati e complessi problemi applicativi.

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Tar Lazio, Roma, Sez. II ter 29 aprile 2015, sentenza n. 6211 –  Facendo applicazione del principio di soccombenza virtuale, in un giudizio che si conclude con una declaratoria di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse il soggetto soccombente virtuale è tenuto alla rifusione del contributo unificato.     Dopo avere interpellato la Corte di Giustizia in merito alla compatibilità comunitaria del contributo unificato applicato ai giudizi amministrativi in materia di appalti, il TRGA di Trento declina inaspettatamente la propria giurisdizione e dichiara l'inammissibilità del ricorso proposto con motivi aggiunti.

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