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-- DISTANZE FRA FABBRICATI -- T.A.R. Liguria, Sez. I, 28 novembre 2018, n. 933 - L’articolo 9 del DM 2 aprile 1968, n. 1444, che disciplina i limiti di distanza tra i fabbricati, dispone: “Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue: 1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale; 2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; 3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12. Le distanze minime tra fabbricati - tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti) - debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di: ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7; ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15; ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15. Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche.” L’unità immobiliare e la veranda dei ricorrenti rispettano la distanza minima di 10 metri dagli edifici antistanti prevista dall’articolo 9, primo comma, lettera b), come comprovato dalla tavola integrativa depositata in fase procedimentale. La veranda si colloca però a distanza inferiore ai 5 metri dal ciglio stradale e pertanto non rispetta i parametri imposti dal secondo comma del medesimo articolo 9. Le maggiori distanze ivi previste per i fabbricati tra i quali si interpongono strade non trovano peraltro applicazione all’immobile in questione, localizzato in zona urbanistica B6. Il collegio aderisce sul punto all’orientamento giurisprudenziale che ritiene il secondo comma ed il primo periodo del terzo comma dell’articolo 9 sopra citato applicabili ai soli edifici ubicati in zona urbanistica “C”. (TAR Liguria, sez. I, 17 settembre 2015, n. 743; TAR Veneto, sez. II, 20 marzo 2014, n. 364; TAR Trentino Alto Adige, Bolzano, 7 marzo 2018, n. 78). Detta interpretazione, oltre che basata sul tenore letterale della normativa richiamata, trae fondamento da una lettura logico-sistematica della disciplina, che regola in modo differenziato la pianificazione urbanistica a seconda del diverso stato di urbanizzazione delle aree, differenziando le prescrizioni a seconda che l’edificazione venga effettuata in aree in gran parte già edificate e urbanizzate, in zone di espansione o di nuova edificazione.   Corte Cost., 24 febbraio 2017, n. 41 - Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la disciplina delle distanze fra costruzioni ha la sua collocazione anzitutto nella sezione VI del Capo II del Titolo II del Libro III del codice civile, intitolata appunto “Delle distanze nelle costruzioni, piantagioni e scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra fondi”. «Tale disciplina, ed in particolare quella degli articoli 873 e 875 che viene qui in più specifico rilievo, attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi. […] Non si può pertanto dubitare che la disciplina delle distanze, per quanto concerne i rapporti suindicati, rientri nella materia dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello Stato» (sentenza n. 232 del 2005). Nondimeno, si è altresì sottolineato, che quando i fabbricati insistono su di un territorio che può avere, rispetto ad altri – per ragioni naturali e storiche – specifiche caratteristiche, «la disciplina che li riguarda – e in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso – esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici», la cui cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni perché attratta all’ambito di competenza concorrente del governo del territorio (si veda sempre la sentenza n. 232 del 2005). In questa cornice si è dunque affermato che «alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo il governo del territorio che ne detta anche le modalità di esercizio» (sentenza n. 6 del 2013; nello stesso senso, da ultimo, anche le sentenze n. 231, n. 189, n. 185 e n. 178 del 2016). 4.2.– Nel delimitare i rispettivi ambiti di competenza statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio» questa Corte ha individuato il punto di equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, più volte ritenuto dotato di particolare «efficacia precettiva e inderogabile» (sentenza n. 185 del 2016, ma anche sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005), in quanto richiamato dall’art. 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica), introdotto dall’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150). Pertanto, è stata giudicata legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche» (ex plurimis, sentenza n. 231 del 2016). In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite «se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 134 del 2014; analogamente sentenze n. 178, n. 185, n. 189, n. 231 del 2016), poiché «la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati» (sentenza n. 114 del 2012; nello stesso senso, sentenza n. 232 del 2005). 4.3.– I medesimi principi sono stati ribaditi anche dopo l’introduzione dell’art. 2-bis del TUE, da parte dell’art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98. La disposizione, infatti, ha sostanzialmente recepito l’orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 185 del 2016; nello stesso senso, ex plurimis, sentenza n. 189 del 2016). 4.4.– La deroga alla disciplina delle distanze realizzata dagli strumenti urbanistici deve, in conclusione, ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario (art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968). 5.– Alla luce delle considerazioni svolte, deve ritenersi coerente, rispetto alle indicazioni interpretative offerte dalla Corte e ribadite dal disposto di cui all’art 2-bis del TUE, il riferimento che la norma impugnata reca ai piani urbanistici attuativi (PUA), assimilabili ai piani particolareggiati o di lottizzazione e dunque riconducibili a quella tipologia di atti menzionati nell’art. 9, ultimo comma del d.m. n. 1444 del 1968, più volte richiamato, cui va riconosciuta la possibilità di derogare al regime delle distanze. D’altro canto la stessa giurisprudenza di questa Corte ha stabilito che la deroga alle distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione dettagliata e definita degli interventi (sentenza n. 6 del 2013). Ne consegue che devono ritenersi ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in esame, dall’art 2-bis del TUE, in linea con l’interpretazione nel tempo tracciata da questa Corte (ex multis, sentenze n. 231, n. 189, n. 185, n. 178 del 2016 e n. 134 del 2014).     Corte Cost., 3 novembre 2016, n. 231 - Il Governo ritiene ancora che le modifiche apportate dal sesto comma dell’art. 6 della legge impugnata all’art. 18, comma l, della legge regionale n. 16 del 2008, recante la disciplina delle distanze da osservare negli interventi sul patrimonio edilizio esistente e di nuova costruzione, contrastino con l’art. 2-bis del TUE, in quanto la disciplina introdotta dalla Regione Liguria sarebbe destinata, non a soddisfare esigenze di carattere urbanistico, bensì a consentire interventi edilizi puntuali, in deroga alla normativa statale in materia di distanze, e invaderebbe così la sfera di competenza legislativa esclusiva statale in materia di «ordinamento civile» (di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l, Cost.). La questione è fondata. Secondo la giurisprudenza di questa Corte sul riparto di competenze in tema di distanze legali, «la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo − il governo del territorio − che ne detta anche le modalità di esercizio» (sentenza n. 6 del 2013; nello stesso senso, sentenze n. 134 del 2014 e n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011). Si è affermato di conseguenza che: «Nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza − statale in materia di “ordinamento civile” e concorrente in materia di “governo del territorio” −, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile (sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011). Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”. In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio (sentenza n. 6 del 2013)» (sentenza n. 134 del 2014). Queste conclusioni meritano di essere ribadite anche alla luce dell’introduzione − ad opera dall’art. 30, comma 1, 0a), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98 − dell’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001. La disposizione recepisce la giurisprudenza di questa Corte, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le regioni e le province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità di deroghe solo a condizione che esse siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 134 del 2014; da ultimo sentenze 185 e 178 del 2016). La disposizione regionale impugnata, non affidando l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici» e non essendo funzionale ad un «assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio», riferisce la possibilità di deroga a qualsiasi ipotesi di intervento, quindi anche su singoli edifici, con la conseguenza che essa risulta assunta al di fuori dell’ambito della competenza regionale concorrente in materia di «governo del territorio», in violazione del limite dell’«ordinamento civile» assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Va ancora precisato che, se è vero che ‒ come sembra opinare il Governo ‒ le stesse ragioni di contrasto con il riparto di competenze costituzionali potevano essere riferite al testo originario della norma, in quanto non conseguono alla sostituzione delle parole «ivi compresi» con la parola «nonché» (anche gli «interventi sul patrimonio edilizio esistente» possono infatti esaurirsi in un intervento mirato), la mancata impugnazione a suo tempo, da parte dello Stato, della disposizione originaria non rileva ai fini del presente giudizio, poiché la disposizione censurata – che peraltro presenta un contenuto di novità rispetto alla disposizione modificata, anche per l’aggiunta della previsione che il recupero del sottotetto non costituisce creazione di un nuovo piano – ha comunque l’effetto di reiterare la lesione da cui deriva l’interesse a ricorrere dello Stato. L’omessa impugnazione da parte di quest’ultimo di precedenti norme regionali, analoghe a quelle oggetto di ricorso, non ha rilievo, dato che l’istituto dell’acquiescenza non è applicabile nel giudizio di legittimità costituzionale in via principale (ex plurimis, sentenze n. 215 e n. 124 del 2015, n. 139 del 2013, n. 71 del 2012 e n. 187 del 2011).   Cons. Stato, Sez. IV, 4 agosto 2016, n. 3522 - Con l’ultimo motivo di entrambi gli appelli, le parti istanti censurano nel merito l’interpretazione data dal primo giudice del disposto dell’art. 9, d.m. nr. 1444/1968, facendone rilevare l’inapplicabilità alla situazione che qui occupa, laddove i due edifici non avevano pareti finestrate direttamente frontistanti, vi era diversità di quote fra le aperture, e comunque era da escludersi la creazione di qualsivoglia intercapedine nociva o pericolosa per la salubrità pubblica. Anche questi motivi vanno respinti, ponendosi essi in frontale contrasto con tutti i principali approdi della giurisprudenza in subiecta materia. In particolare, proprio con riferimento alle disposizioni contenute nell’art. 9 in tema di pareti finestrate, è stato osservato: a) che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29 febbraio 2016, nr. 856; id., 11 giugno 2015, nr. 2861; id., 22 gennaio 2013, nr. 354; id., 20 luglio 2011, nr. 4374); b) che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22 novembre 2013, nr. 5557; id., 9 ottobre 2012, nr. 5253); c) che la norma in questione, in ragione della sua ratio di tutela della salubrità, è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti (cfr. Cons. Stato, 27 ottobre 2011, nr. 5759); d) che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile, donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di pregiudizio alla salubrità degli immobili (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18 dicembre 2012, nr. 6489; id., sez. IV, 9 maggio 2011, nr. 2749; id., 5 dicembre 2005, nr. 6909).   Cons. Stato, Sez. IV, 3 agosto 2016, n. 3510 - Il limite di 10 m. di distanza, di cui al già citato art. 9, primo comma n. 2. D.M. n. 1444/1968 - da computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non anche alle sole parti che si fronteggiano (Cons. Stato, sez. IV, 11 giugno 2015 n. 2661) - presuppone la presenza di due “pareti” che si fronteggiano, delle quali almeno una finestrata (Cons. stato, sez. IV, 26 novembre 2015 n. 5365; id., 19 giugno 2006 n. 3614). Più precisamente, la giurisprudenza ha affermato che il limite predetto presuppone “pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende quelle su cui si aprono finestre cd. lucifere” (Cons. Stato, sez. IV, 4 settembre 2013 n. 4451 e 22 gennaio 2013 n. 844; in senso conforme, Cass. civ., sez. II, 30 aprile 2012 n. 6604; nel senso che le aperture di tipo velux, come quella indicata nel progetto impugnato, non sono qualificabili come vedute ma come luci, Cons. Stato, sez. IV, 5 ottobre 2015, n. 4628). Orbene, nel caso di specie non ricorre l’ipotesi di due pareti di edifici, delle quali almeno una finestrata, poiché – come è pacifico tra le parti (v. memoria Pittaluga-Pugliese, del 7 ottobre 2014, pag. 8) e come emerge dagli atti di causa - nel caso di specie il “confronto” verte tra una parete finestrata dell’edificio Rojch ed un muro di contenimento di proprietà degli appellati. Come si è detto, argomentando anche dalla giurisprudenza innanzi citata, l’applicazione della distanza di 10 metri, di cui all’art. 9, primo comma, n. 2, D.M. n. 1444 cit. presuppone pareti di edifici, delle quali almeno una finestrata con “vedute”, di modo che non può essere ampliata la portata della norma fino al punto di comprendere manufatti (quali un muraglione) che non possono essere ragionevolmente ricondotti alla definizione di “parete di edificio”; e ciò a maggior ragione in presenza di una riconosciuta imperatività della norma, tale da imporsi anche a disposizioni di diverso e contrastante contenuto, eventualmente adottate in sede di pianificazione urbanistica. Alla luce di quanto esposto, non può essere condivisa la sentenza impugnata, laddove essa afferma che “anche il muro di contenimento costituisce edificio rilevante ai fini del rispetto delle distanze di cui al D.M. n. 1444/1968”, poiché esso è “palesemente in grado di dar vita ad intercapedini contrarie alla finalità della norma”. Per un verso, tale affermazione non risulta validata dal tenore letterale della norma; per altro verso, occorre osservare che l’art. 9 non intende evitare la realizzazione di qualsivoglia tipo di intercapedine, altrimenti non avrebbe senso il testuale riferimento alle pareti finestrate, ma di quelle intercapedini che si pongono in contrasto con “imprescindibili esigenze igienico-sanitarie” (Cons. St., sez. IV, n. 4451/2013 cit.). Per tutte le ragioni esposte, il secondo motivo proposto è fondato e, pertanto, l’appello deve essere accolto, con assorbimento degli ulteriori motivi proposti e conseguente riforma della sentenza impugnata.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 10 febbraio 2016, n. 126 - Parte ricorrente denuncia l’illegittimità del titolo edilizio impugnato, in quanto non sussisterebbe la distanza di cui all’art. 9 del d.m. 2.4.1968, n. 1444 tra una parete della costruzione contestata e la vicina finestra dell’immobile edificato sul fondo accatastato al mappale 225; […] Le parti resistente e controinteressata non contestano espressamente la validità del rilievo, ma eccepiscono l’inammissibilità del motivo, in quanto proposto da un soggetto non titolare del necessario interesse alla sua deduzione e la sua infondatezza nel merito, posto che la frontistanza riguarda una porta-finestra e non già una finestra. Sull’ammissibilità della questione il collegio osserva di essersi già pronunciato altra volta in senso contrario alla tesi che sottende l’eccezione (sent. 12.3.2013, n. 476, paragrafo 3.12), trattandosi di una materia funzionale alla miglior tutela della salute pubblica (cons. Stato 2002, n. 3929, 2003, n, 871, tar Lombardia, Milano, 2014, n. 1597 e tar Piemonte, 2014, n. 94) e ad evitare le dannose intercapedini che possono formarsi quando gli edifici delle aree non centrali o storiche sono posti a distanza esigua l’uno dall’altro. La natura pubblicistica dell’interesse così protetto fa sì che chiunque sia in rapporto di contiguità con il bene ha titolo a far valere in giudizio l’illegittimità in questione.   In fatto l’apertura che risulta nel fondo vicino a quello oggetto di intervento consente un’ampia veduta sulla proprietà contigua, sì che alla specie possono applicarsi i principi giurisprudenziali condivisi (cass., 13.8.2012, n. 17950) che consentono l’equiparazione in tutto della bucatura ad una finestra. T.A.R. Liguria, Sez. I, 16 gennaio 2015, n. 84 - Il controinteressato oppone alla censura la natura di luce che l’apertura avrebbe nell’ambito della facciata di che si tratta, ma le immagini prodotte rappresentano una differente realtà, attesa la lieve differenza nell’altezza dal pavimento tra la veduta oggetto della ricordata d.i.a. e quella che caratterizza la nuova bucatura aperta sopra il fondo della ricorrente. Consegue da ciò che, in assenza di prove circa la natura di semplice luce della nuova finestra, questa va dichiarata come realizzata in violazione dell’art. 905 cc, posto che essa consente l’affaccio sul fondo di cui l’interessata è comproprietaria.   T.A.R. Liguria, Sez. I, 18 novembre 2014, n. 1630 - In tale ottica, con particolare riferimento alla materia in questione, va altresì precisato (cfr. ad es. Tar Campania n. 23762\2010 e Tar Liguria 476\2013, Consiglio di Stato n. 3929\2002 e 5759\2011) che in tema di proprietà, l'obbligo di rispettare le distanze legali previste dagli strumenti urbanistici per le costruzioni legittime non soltanto a tutela dei proprietari frontisti ovvero della relativa riservatezza, ma anche per finalità di pubblico interesse, dovendo così essere osservato sia in sede di valutazione di abusi soggetti ad istanza di sanatoria sia rispetto a nuove edificazioni, in ordine alle quali i soggetti caratterizzati dalla vicinitas hanno il diretto concreto ed attuale interesse affinché la relativa realizzazione avvenga nel rispetto delle norme dettate a tutela (anche) di interessi fondamentali e collettivi. In materia, inoltre, si richiamano i precedenti secondo cui la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (cfr. ad es. Consiglio Stato, Sez. IV, 5 dicembre 2005, n. 6909); quindi nella specie si conferma la rilevanza dell'edifico posto in posizione latistante. In proposito, ai fini del computo delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene (cfr. ad es. Consiglio di Stato, Sez. V, 19 marzo 1996, n. 268). In dettaglio, va quindi ribadito che nel calcolo delle distanze tra costruzioni, devono prendersi in considerazione le sporgenze costituenti per il loro carattere strutturale e funzionale veri e propri aggetti implicanti perciò un ampliamento dell'edificio in superficie e volume, come appunto i balconi formati da solette aggettanti anche se scoperti di apprezzabile profondità, ampiezza e consistenza (Tar Puglia n. 1235\2012). Analogamente, gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche ad estendere ed ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo (Consiglio Stato , Sez. IV, 5 dicembre 2005 , n. 6909). Pertanto, sulla scorta di tali indicazioni non può certo escludersi dai manufatti rilevanti a fini di distanze, in quanto palesemente in grado di dar vita a intercapedini contrarie alla finalità della norma, l’innalzamento di corpi di fabbrica latistanti che, creando un nuovo volume fisico rispetto al pregresso, danno vita ad un nuovo ingombro soggetto anch’esso alla verifica del rispetto delle distanze. Incidentalmente va evidenziato come nella specie non possa assumere rilievo la nuova definizione normativa di ristrutturazione di cui all'art. 30 d.l. 69\2013: sia ratione temporis, in quanto all'epoca del rilascio degli assensi in contestazione vigeva altra normativa; sia in quanto nella specie non viene in rilievo una mera modifica della sagoma, trattandosi di nuovo volume, sia - soprattutto - per la rilevanza ex se ed autonoma del medesimo nuovo volume rispetto ai principi in tema di distanze. Analoghe considerazioni vanno svolte per la parte innovativa di cui al predetto art. 30 in tema di distanze: non applicato né applicabile alla fattispecie ratione temporis, sia per l'assenza della necessaria legislazione regionale espressamente derogatoria sul punto, cui rinvia la sopravvenuta norma statale.   Cons. Stato, Sez. IV, 4 settembre 2013, n. 4451 - "Un preciso orientamento sia della Cassazione (Cass. Sez. Civ., Sez. II 30 aprile 2012, n. 6604), sia di questo Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. IV, 22 gennaio 2013, n. 844) - dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi - ha avuto modo di affermare come la regola del rispetto della distanza di dieci metri, di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, si riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere".   T.A.R. Liguria, Sez. I, 12 luglio 2013, n. 1067 - "La nuova costruzione, al contrario, in qualsiasi zona sia realizzata, fosse anche in zona A, comporta il rispetto della distanza di cui all’art. 9 d.m. 1444/1968 di dieci metri dalle pareti finestrate degli edifici fronti stanti (C.S.V 19 marzo 1999 n. 280). Ciò posto nel caso di specie la ricorrente ha chiesto un permesso di costruire per il recupero del sottotetto che ha comportato la sopraelevazione della linea di gronda di circa 70 centimetri, onde la riconducibilità dell’intervento alla nuova costruzione. Peraltro l’edificio posto a levante di quello della ricorrente presenta, contrariamente a quanto asserito in ricorso, finestre nella parete frontistante l’immobile della ricorrente (foto n. 5 prod. n. 10 comune di Finale Ligure 4 aprile 2012). A questo punto è irrilevante stabilire se il progetto della ricorrente prevedesse o meno finestre o luci e così via. Infatti, una volta accertato che l’edificio frontistante presentava una parete finestrata la sopraelevazione doveva essere rispettosa della distanza di dieci metri".   Corte Cost., 23 gennaio 2013, n. 6 - La regolazione delle distanze tra i fabbricati deve essere inquadrata nella materia «ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato (Corte Cost. sentenze n. 114 del 2012, n. 173 del 2011, n. 232 del 2005). Infatti, tale disciplina attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi e ha la sua collocazione innanzitutto nel codice civile. La regolazione delle distanze è poi precisata in ulteriori interventi normativi, tra cui rileva, in particolare, il d.m. n. 1444 del 1968. Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ha altresì chiarito che, poiché «i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri -- per ragioni naturali e storiche -- specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda -- ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso -- esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici» (sentenza n. 232 del 2005), la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di «governo del territorio», ex art. 117, terzo comma, Cost.. Per queste ragioni, in linea di principio la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo -- il governo del territorio -- che ne detta anche le modalità di esercizio. Pertanto, la legislazione regionale che interviene in tale ambito è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, rimettendo l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 232 del 2005).   Il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in materia di «governo del territorio», come identificato dalla Corte costituzionale, trova una sintesi normativa nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di «efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011; sentenza n. 232 del 2005). Quest’ultima disposizione consente che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche». Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.  La norma regionale censurata infrange i principi sopra ricordati, in quanto consente espressamente ai Comuni di derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite dall’art. 9, ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, che, come si è detto, esige che le deroghe siano inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia dell’interesse pubblico relativo al governo del territorio. La disposizione regionale impugnata, al contrario, autorizza i Comuni ad «individuare gli edifici» dispensati dal rispetto delle distanze minime. La deroga non risulta, dunque, ancorata all’esigenza di realizzare la conformazione omogenea dell’assetto urbanistico di una determinata zona, ma può riguardare singole costruzioni, anche individualmente considerate. La procedura delineata dal legislatore regionale non è dunque conforme ai principi sopra enunciati, né il vizio può ritenersi insussistente in ragione dell’art. 2, quarto comma, della legge regionale impugnata, che intende conferire a tale procedura «efficacia di piano particolareggiato», ex lege. Anzi, attraverso tale autoqualificazione, il legislatore regionale pretende di attribuire gli effetti tipici degli strumenti urbanistici a un procedimento che non ne rispecchia la sostanza e le finalità. L’attribuzione, per via legislativa, della qualifica formale di piano particolareggiato ad una procedura che del piano urbanistico non ha le caratteristiche, perché permette di derogare caso per caso alle regole sulle distanze tra edifici, non offre alcuna garanzia che la legge regionale persegua quelle finalità pubbliche di governo del territorio che, sole, possono giustificare l’esercizio di una competenza legislativa regionale in un ambito strettamente connesso alla competenza statale in materia di «ordinamento civile».     T.A.R. Liguria, Sez. I, 14 dicembre 2012, n. 1658 - La sopraelevazione del fabbricato oltre il profilo superiore del muro di confine con la proprietà viciniore, distando solo m. 3,50-3,70 dalla parete dell’edificio frontistante ove è presente una finestra, viola il limite di distanza di dieci metri tra i fabbricati imposto dall’art. 9 del D.M. 2.4.1968, n. 1444 (distanza che è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata, essendo sufficiente per l'applicazione di tale distanza che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta – Cass., VI, 27.6.2012, n. 10753). Né rileva la circostanza che si versi in zona “A” di P.R.G., posto che il limite di distanza corrispondente a quella tra i volumi edificati preesistenti riguarda soltanto gli interventi di risanamento conservativo e di ristrutturazione, mentre nel caso di specie si tratta -- come detto -- di nuova costruzione (cfr. Cons. di St., VI, 27.1.2003, n. 419; id., V, 19.3.1999, n. 280, per i quali alla realizzazione di nuovi edifici in zona omogenea A si applica la distanza minima assoluta di dieci metri di cui all’art. 9 comma 1 n. 2 D.M. 2.4.1968).   V. anche alle voci "Edilizia - Giurisprudenza - Sottotetti", "Edilizia - Giurisprudenza - Tipologie di interventi urbanistico edilizi - Ristrutturazione edilizia" e "Edilizia - Giurisprudenza - Tipologie di interventi urbanistico edilizi - Nuova costruzione".   -- DISTANZE DAL CONFINE STRADALE --   T.A.R. Liguria, Sez. I, 5 maggio 2016, n. 430 - La contestazione deriva dall’art. 64 delle NA del PUC vigente che impone nel distretto in questione una distanza minima di metri quattro tra le serre e la viabilità: la previsione non è ulteriormente dettagliata, sì che essa va intesa nel senso che il precetto si riferisce alle vie pubbliche, mentre è pacifico per averlo ammesso il comune che la via non è inserita nell’elenco delle strade comunali, né che il bene sia stato destinato al pubblico transito per destinazione c.d. ex agris collatis (cass. 5.7.2013, n. 16864).     T.A.R. Liguria, Sez. I, 30 settembre 2014, n. 1404 - Ai fini della positiva identificabilità del centro abitato è necessario un apposito provvedimento amministrativo di delimitazione che non può essere supplito dal riscontro naturalistico, peraltro ampiamente opinabile, delle caratteristiche previste dal codice della strada. Né in presenza di una presa di posizione dell’ente deputato alla tutela del vincolo possono assumere rilevanza le precedenti determinazioni assunte dall’amministrazione comunale.     T.A.R. Liguria, Sez. I, 5 luglio 2010, n. 5565 - L’art. 1 del D. Lgs. 16.12.1992, n. 495 (recante il regolamento di esecuzione e di attuazione del codice della strada), prevede che “le distanze dal confine stradale all'interno dei centri abitati, da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle demolizioni integrali e conseguenti ricostruzioni o negli ampliamenti fronteggianti le strade, non possono essere inferiori a: a) 30 m per le strade di tipo A […]”. Il termine “fronteggianti” non si riferisce ai soli manufatti “in elevazione” rispetto al livello della strada, bensì a tutte le costruzioni che si trovino, in proiezione orizzontale, di fronte al confine stradale, e siano dunque finitime ad esso.   Per costante giurisprudenza, il divieto di costruire ad una certa distanza dalla sede stradale non deve essere inteso restrittivamente, e cioè come previsto al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali emergenti dal suolo e suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico ed alla incolumità delle persone, ma è connesso alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, dal concessionario, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi con la presenza di costruzioni, sicché le distanze previste dalla normativa vanno rispettate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale (Cass., II, 1.6.1995, n. 6118; Cons. di St., IV, 18.10.2002, n. 5716; id., 25.9.2002, n. 4927; T.A.R. Campania-Salerno, II, 9.4.2009, n. 1383). Del resto, già la normativa precedente (art. 4 del D.M. 1.4.1968) -- rispetto alla quale quella di cui all’art. 1 del D. Lgs. 16.12.1992, n. 495 si pone in linea di coerente continuità --stabiliva che alle distanze da osservarsi nella edificazione a partire dal ciglio della strada e da misurarsi in proiezione orizzontale, “va aggiunta la larghezza dovuta alla proiezione di eventuali scarpate”, con ciò confermando che, al fine di escludere l’applicazione della fascia di rispetto stradale, non rileva che l’autostrada corra su di un rilevato posto ad una quota superiore rispetto a quella del terreno oggetto della progettata edificazione. L’art. 9 della legge 24.3.1989, n. 122 (cd. Legge Tognoli), nella parte in cui consente di derogare agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, costituisce norma eccezionale, non applicabile -- ex art. 14 disp. prel. c.c. -- oltre i casi in essa specificamente considerati (i divieti contenuti negli strumenti urbanistici e nei regolamenti edilizi).

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