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Il Consiglio di Stato, Ad. Plen., 25 maggio 2021, n. 8 torna sulla tematica dell'ottemperanza affrontando i rapporti tra i poteri dell'Amministrazione e quelli del commissario ad acta e sancedo i seguenti principi di merito: a) il potere dell’amministrazione e quello del commissario ad acta sono poteri concorrenti, di modo che ciascuno dei due soggetti può dare attuazione a quanto prescritto dalla sentenza passata in giudicato, o provvisoriamente esecutiva e non sospesa, o dall’ordinanza cautelare fintanto che l’altro soggetto non abbia concretamente provveduto;b) gli atti emanati dall’amministrazione, pur in presenza della nomina e dell’insediamento del commissario ad acta, non possono essere considerati di per sé affetti da nullità, in quanto gli stessi sono adottati da un soggetto nella pienezza dei propri poteri, a nulla rilevando a tal fine la nomina o l’insediamento del commissario.c) gli atti adottati dal commissario ad acta non sono annullabili dall’amministrazione nell’esercizio del proprio potere di autotutela, né sono da questa impugnabili davanti al giudice della cognizione, ma sono esclusivamente reclamabili, a seconda dei casi, innanzi al giudice dell’ottemperanza, ai sensi dell’art. 114, co. 6, c.p.a. ovvero innanzi al giudice del giudizio sul silenzio, ai sensi dell’art. 117, co. 4, c.p.a.d) gli atti adottati dal commissario ad acta dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, ovvero quelli che l’amministrazione abbia adottato dopo che il commissario ad acta abbia provveduto, sono da considerare inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse, a seconda dei casi, al giudice dell’ottemperanza o al giudice del giudizio sul silenzio.     Il Consiglio di Stato, Ad. Plen., 9 maggio 2019, n. 7 interviene ancora una volta sulla tematica dell'astreinte in merito alla modificabilità del regime sanzionatorio in sede di ottemperanza per chiarimenti, sancendo il seguente principio "9.1. E’ sempre possibile in sede di c.d. “ottemperanza di chiarimenti” modificare la statuizione relativa alla penalità di mora contenuta in una precedente sentenza d’ottemperanza, ove siano comprovate sopravvenienze fattuali o giuridiche che dimostrino, in concreto, la manifesta iniquità in tutto o in parte della sua applicazione.9.2. Salvo il caso delle sopravvenienze, non è in via generale possibile la revisione ex tunc dei criteri di determinazione della astreinte dettati in una precedente sentenza d’ottemperanza, sì da incidere sui crediti a titolo di penalità già maturati dalla parte beneficiata. Tuttavia, ove il giudice dell’ottemperanza non abbia esplicitamente fissato, a causa dell’indeterminata progressività del criterio dettato, il tetto massimo della penalità, e la vicenda successiva alla determinazione abbia fatto emergere, a causa proprio della mancanza del tetto, la manifesta iniquità, quest’ultimo può essere individuato in sede di chiarimenti, con principale riferimento, fra i parametri indicati nell’art. 614 bis c.pc., al danno da ritardo nell’esecuzione del giudicato"     Il Consiglio di Stato, Ad. Plen., 9.6.2016, n. 11 interviene ancora in materia di giudizio di ottemperanza, di questioni di pregiudizialità eurounitarie e di estensione del giudicato enucleando i seguenti principi di diritto: A) IL LIMITE DEL GIUDICATO NEL CASO IN CUI ALL'AMMINISTRAZIONE RESIDUI L'ESERCIZIO DI UN POTERE DISCREZIONALE 1) il giudicato non può incidere sui tratti liberi dell’azione amministrativa lasciati impregiudicati dallo stesso giudicato e, in primo luogo, sui poteri non esercitati e fondati su presupposti fattuali e normativi diversi e successivi rispetto a quest’ultimo; 2) l’esecuzione del giudicato amministrativo (sebbene quest’ultimo abbia un contenuto poliforme), non può essere il luogo per tornare a mettere ripetutamente in discussione la situazione oggetto del ricorso introduttivo di primo grado, su cui il giudicato ha, per definizione, conclusivamente deciso; se così fosse, il processo, considerato nella sua sostanziale globalità, rischierebbe di non avere mai termine, e questa conclusione sarebbe in radicale contrasto con il diritto alla ragionevole durata del giudizio, all’effettività della tutela giurisdizionale, alla stabilità e certezza dei rapporti giuridici (valori tutelati a livello costituzionale e dalle fonti sovranazionali alle quali il nostro Paese è vincolato); da qui l’obbligo di esecuzione secondo buona fede e senza che sia frustrata la legittima aspettativa del privato alla stabile definizione del contesto procedimentale; B) I RAPPORTI TRA IL GIUDICATO ED I FATTI SOPRAVVENUTI 3) l’Amministrazione soccombente a seguito di sentenza irrevocabile di annullamento di propri provvedimenti ha l’obbligo di ripristinare la situazione controversa, a favore del privato e con effetto retroattivo, per evitare che la durata del processo vada a scapito della parte vittoriosa; 4) questa retroattività dell’esecuzione del giudicato non può essere intesa in senso assoluto, ma va ragionevolmente parametrata alle circostanze del caso concreto ed alla natura dell’interesse legittimo coinvolto (pretensivo, oppositivo, procedimentale); 5) in particolare l’esecuzione del giudicato può trovare limiti solo nelle sopravvenienze di fatto e diritto antecedenti alla notificazione della sentenza divenuta irrevocabile; sicché la sopravvenienza è strutturalmente irrilevante sulle situazioni giuridiche istantanee, mentre incide su quelle durevoli nel solo tratto dell’interesse che si svolge successivamente al giudicato, determinando non un conflitto ma una successione cronologica di regole che disciplinano la situazione giuridica medesima; 6) anche per le situazioni istantanee, però, la retroattività dell’esecuzione del giudicato trova, peraltro, un limite intrinseco e ineliminabile (che è logico e pratico, ancor prima che giuridico), nel sopravvenuto mutamento della realtà - fattuale o giuridica - tale da non consentire l’integrale ripristino dello status quo ante (come esplicitato dai risalenti brocardi factum infectum fierinequit e ad impossibilia nemo tenetur ) che semmai, ove ne ricorrano le condizioni, può integrare il presupposto esplicito della previsione del risarcimento del danno, per impossibile esecuzione del giudicato, sancita dall’art. 112, co. 3, c.p.a. C) LA RICORRIBILITA' ALLA CORTE DI CASSAZIONE DELLE SENTENZE CHE VIOLANO INTERPRETAZIONE DELLA C.G.U.E. 7) le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno anche recentemente ribadito, l’interpretazione da parte del giudice amministrativo di una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione Europea, secondo quanto risultante da una pronunzia della Corte di Giustizia successivamente intervenuta, dà luogo alla violazione di un “limite esterno” della giurisdizione, rientrando in uno di quei “casi estremi” in cui il giudice adotta una decisione anomala o abnorme, omettendo l’esercizio del potere giurisdizionale per errores in iudicando o in procedendo che danno luogo al superamento del limite esterno (in questi termini, cfr. Cass. Sez. Un. ordinanza 8 aprile 2016, n. 6891, che richiama in motivazione gli analoghi principi precedentemente espressi da Cass. Sez. Un. 6 febbraio 2015, n. 2403)   Ancora il Consiglio di Stato, Ad. Plen., 25 giugno 2014, n. 15 interviene chiarendo che la previsione di cui all'art. 114, comma 4, lett. e) c.p.a., seconda la quale "salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo" (cd. astreinte), trova applicazione "per tutte le decisioni di condanna di cui al precedente art. 113, ivi comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni di natura pecuniaria". Tale disposizione, chiarisce ancora la Plenaria, "costituisce una novità nel processo amministrativo italiano, delinea una misura coercitiva indiretta a carattere pecuniario, inquadrabile nell’ambito delle pene private o delle sanzioni civili indirette, che mira a vincere la resistenza del debitore, inducendolo ad adempiere all’ obbligazione sancita a suo carico dall’ordine del giudice".   Il Consiglio di Stato, Ad. Plen., 9/2013 in materia di ottemperanza della decisione assunta in sede ricorso straordinaria al Capo dello Stato, ha statuito che essendo tale ricorso qualificabile "come decisione di giustizia inquadrabile nel sistema della giurisdizione amministrativa" si giunge inevitabilmente  "al precipitato indefettibile della collocazione del decreto che definisce il ricorso al Capo dello Stato, resa in base al parere obbligatorio e vincolante del Consiglio di Stato nel novero dei provvedimenti del giudice amministrativo di cui alla lettera b) dell'art. 112, comma 2. Ne consegue che il ricorso per l'ottemperanza deve essere proposto, ai sensi dell'art. 113, comma 1, dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si identifica «il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta» (conf. per tutte, Cass. sez. un., 28 gennaio 2011, n. 2065 e 15 marzo 2012, n. 2129; Cons. Stato, Ad. Plen,. 5 giugno 2012, n. 18; sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4638; sez. VI, 10 giugno 2011, n. 3513)"     Il Consiglio di Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2 è intervenuto in materia di qualificazione del giudizio di ottemperanza, statuendo che esso "presenta un contenuto composito, entro il quale convergono azioni diverse, talune riconducibili alla ottemperanza come tradizionalmente configurata; altre di mera esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata nei confronti della Pubblica Amministrazione; altre ancora aventi natura di cognizione, e che, in omaggio ad un principio di effettività della tutela giurisdizionale, trovano nel giudice dell’ottemperanza il giudice competente, e ciò anche a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio di merito (principio che peraltro, come è noto, non ha copertura costituzionale)". Il Consiglio di Stato al riguardo precisa che "la disciplina dell’ottemperanza, lungi dal ricondurre la medesima solo ad una mera azione di esecuzione delle sentenze o di altro provvedimento ad esse equiparabile, presenta profili affatto diversi, non solo quanto al «presupposto» (cioè in ordine al provvedimento per il quale si chieda che il giudice disponga ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto stesso della domanda, la quale può essere rivolta ad ottenere:a) l’«attuazione» delle sentenze o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte dei Conti (Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003 n. 2823; Sez. VI, ord. 24 giugno 2003 n. 2634) e del giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di giudici diversi dal giudice amministrativo «per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza» (art. 112, comma 2). E già in questa ipotesi tradizionale, l’ampiezza della previsione normativa impedisce – come è noto - di ricondurre la natura dell’azione a quella di una mera azione di esecuzione;b) la condanna «a pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza» art. 112, comma 3). In questa ipotesi, l’azione è evidentemente attratta dal giudizio di ottemperanza, poiché le somme ulteriori, al pagamento delle quali l’amministrazione è tenuta, hanno natura di obbligazioni accessorie di obbligazioni principali, in ordine alle quali si è già pronunciata una precedente sentenza o provvedimento equiparato);c) il «risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato» (art. 112, comma 3). In questo caso l’azione, che viene definita risarcitoria dallo stesso Codice, non è rivolta all’ «attuazione» di una precedente sentenza o provvedimento equiparato, ma trova in questi ultimi solo il presupposto. Si tratta, a tutta evidenza, di una azione nuova, esperibile proprio perché è l’ottemperanza stessa che non è realizzata, e in ordine alla quale la competenza a giudicare è, per evidenti ragioni di economia processuale e quindi di effettività della tutela giurisdizionale (a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio), attribuita al giudice dell’ottemperanza;d) la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4), e ciò sia al fine di ottenere – eliminato il diaframma opposto dal provvedimento dichiarato nullo – l’attuazione della sentenza passata in giudicato, sia per ottenere il risarcimento dei danni connessi alla predetta violazione o elusione del giudicato (art. 112, comma 3, ult. parte); danni questi ultimi che possono derivare sia dalla ritardata attuazione del giudicato (per avere invece l’amministrazione emanato un provvedimento nullo), sia direttamente (e distintamente) da tale provvedimento, una volta verificatone l’effetto causativo di danno". e) a tale quadro, va aggiunto il ricorso, ex art. 112, comma 5, proposto al fine di «ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza»: "anche questo non presenta caratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso sostanziale, al novero delle azioni di ottemperanza. Ciò emerge anzitutto dalla stessa terminologia usata dal legislatore, il quale - lungi dall’affermare che è l’ «azione di ottemperanza» ad essere utilizzabile in questi casi - afferma che è «il ricorso» introduttivo del giudizio di ottemperanza (cioè l’atto processuale) ad essere a tali fini utilizzabile, ma risulta anche chiaro dalla circostanza che, a differenza dell’azione di ottemperanza, che è naturalmente esperita dalla parte già vittoriosa nel giudizio di cognizione o in altra procedura a questa equiparabile, in questo caso il ricorso appare proponibile dalla parte soccombente (e segnatamente dalla Pubblica Amministrazione soccombente nel precedente giudizio)". L'Adunanza Plenaria prosegue che "l’esame della disciplina processuale dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 ss. cpa (ai quali occorre doverosamente aggiungere l’art. 31, co. 4), porta ad affermare la attuale polisemicità del «giudizio» e dell’ «azione di ottemperanza», dato che, sotto tale unica definizione, si raccolgono azioni diverse, talune meramente esecutive, talaltre di chiara natura cognitoria, il cui comune denominatore è rappresentato dall’esistenza, quale presupposto, di una sentenza passata in giudicato, e la cui comune giustificazione è rappresentata dal dare concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale, tutelato dall’art. 24 Cost. Di conseguenza il giudice dell’ottemperanza, come identificato per il tramite dell’art. 113 cpa, deve essere attualmente considerato come il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto". Dimodoché in sede di giudizio di ottemperanza "occorre che la p.a. attivi una leale cooperazione per dare concreta attuazione alla pronuncia giurisdizionale anche e soprattutto alla luce del fatto che nell’attuale contesto ordinamentale la risposta del giudice amministrativo è caratterizzata da un assetto soggettivo, inteso come soddisfazione di una specifica pretesa. E se è vero che la sua soddisfazione non può prescindere dall’ottimale assetto di tutti gli interessi coinvolti ivi compresi quelli pubblici, è anche vero che ciò non può e non deve costituire un alibi per sottrarsi al doveroso rispetto del giudicato. Consegue da tutto ciò che la nuova operazione valutativa deve dimostrarsi il frutto della costatazione di una palese e grave erroneità del giudizio precedente e non sia, invece, l’espressione di una gestione – a dir poco – ondivaga e contraddittoria del potere e in quanto tale contrastante, nella prospettiva pubblicistica, con il principio costituzionale del buon andamento e, in quella privatistica, con i principi di correttezza e buona fede".

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